12 giugno 2025   Notizie

Disuguaglianza, occidente e falsi miti

Il Mattino

Amedeo Lepore - Professore ordinario di Storia Economica - Università della Campania Luigi Vanvitelli

In quest’epoca di grande incertezza, di fronte al riassetto geopolitico mondiale e al vorticoso cambiamento di scenario che ne deriva, si è aperto un confronto di idee che, in alcuni casi, riesce a fornire una visione originale su temi cruciali, scardinando qualche falso mito. Un recente articolo di David Brooks ha messo in rilievo una convergenza sul terreno del populismo tra Donald Trump e J.D. Vance, da un lato, e Bernie Sanders, dall’altro. Il columnist del New York Times ha criticato la loro narrazione univoca degli ultimi decenni, che tende ad addossare tutte le colpe dell’instabilità alla globalizzazione, facendo ricorso a tre osservazioni specifiche.

Innanzitutto, egli sostiene che non vi sia mai stata una fase di “pura globalizzazione orientata al mercato”, dato che l’intervento pubblico si è manifestato anche nel corso di quel periodo in vari modi (aliquote marginali massime più elevate, aumento della spesa federale per programmi sociali, sostegno ai redditi più bassi, tariffe doganali sostanzialmente stabili). Il secondo argomento di riflessione riguarda i salari, che sono rimasti realmente stagnanti, ma non nella fase della globalizzazione, durante la quale sono cresciuti. In terzo luogo, per Brooks, la concorrenza cinese ha provocato sicuramente uno shock, ma le relative perdite di posti di lavoro sono state largamente compensate da un potenziamento dell’occupazione spinto dall’incremento delle esportazioni manifatturiere. 

Tuttavia, egli non pensa che l’economia statunitense sia priva di contraddizioni e incognite: semplicemente, ritiene che il populismo economico “trumpiano” e quello “progressista”, tentando di ribaltare, rispettivamente, le politiche relativamente moderate di George W. Bush e le strategie economiche di Bill Clinton e Barack Obama, compiano un grave errore, colpendo le fonti della prosperità americana, a cominciare dalla competizione globale. All’articolo di David Brooks è seguita una replica, sul sito del Center for Economic and Policy Research, da parte dell’economista Dean Baker, che ha evidenziato un consistente calo della quota di lavoratori industriali sul totale dell’occupazione a partire dagli anni ‘70, con una caduta di quasi sei milioni di addetti nel comparto manifatturiero tra il 2000 e il 2009. 

Altri contributi hanno trattato in maniera del tutto peculiare materie essenziali per la comprensione della situazione attuale. Daniel Waldenström, autore di “Richer and More Equal: A New History of Wealth in the West”, è intervenuto in questi giorni su Foreign Affairs sul “mito della disuguaglianza”, sostenendo che le società occidentali stanno diventando più e non meno eque del passato. In questo modo, ha provato a confutare le opinioni correnti su un forte aumento dell’ineguaglianza e uno svuotamento delle classi medie, indicando come le posizioni più significative in questo campo si fondino “su letture selettive della storia e su misurazioni parziali del tenore di vita”. 

A suo avviso, quando si fa un bilancio completo delle economie contemporanee, includendo tasse, trasferimenti, diritti pensionistici, proprietà immobiliari e passaggio delle persone attraverso differenti fasce di reddito, il quadro appare nettamente diverso e la disuguaglianza non è così marcata, presentando numerose sorprese. L’argomentazione di Waldenström è molto articolata e per nulla banale. Infatti, egli sottolinea come la concentrazione del potere economico possa alterare i mercati e la politica, la povertà sia un fenomeno persistente nei Paesi ricchi e le fortune delle parti alte della distribuzione dei redditi siano eclatanti. Tuttavia, l’economista nota anche il possesso da parte di famiglie di ogni estrazione sociale di “capitale su una scala inimmaginabile per le generazioni precedenti” e un generale miglioramento dei principali indicatori di benessere in occidente (aspettativa di vita, livello di istruzione e possibilità di consumo). Da queste constatazioni deriva la necessità di adottare politiche economiche appropriate, evitando che diagnosi sbagliate generino cattive terapie. Waldenström ripercorre attentamente la narrativa prevalente sull’ineguaglianza, ispirata a Thomas Piketty, esaminando criticamente le tesi basilari di questo impianto e rilevando che una serie di studi ha rivalutato la ripartizione della ricchezza a lungo termine, con l’avvento di una “democratizzazione finanziaria”. 

Inoltre, Martin Wolf, commentatore economico del Financial Times, in un volume dedicato alla crisi del capitalismo democratico, ha individuato quale spiegazione del malessere odierno e dell’ascesa di una “autocrazia demagogica” la rottura del rapporto tra capitalismo e democrazia liberale. Mentre, l’economista Pranab Bardhan, in “A World of Insecurity”, ha osservato che è l’insicurezza – soprattutto l’inquietudine per i problemi materiali e i mutamenti culturali – e non la disuguaglianza alla radice della diffusione del populismo e del disincanto nei confronti della democrazia. Entrambi gli autori vedono la ripresa del nazionalismo su larga scala come un effetto, non una causa, del declino della democrazia. In tutti questi interventi vi sono aspetti ponderati di novità che non vanno trascurati, uscendo dal conformismo di un pensiero semplificato e riduzionista. 

Il mondo complesso con cui bisogna fare i conti non può essere compreso facendo leva su interpretazioni superficiali. Occorre analizzarlo per quello che è e trarne la conseguenza di una profonda trasformazione, imperniata su modelli difficili da costruire, ma disancorati dalle più obsolete convinzioni dei “conservatori” e dei “progressisti”. Idee nuove possono alimentare un riformismo utile per una svolta globale.

Firma ora il manifesto

Il futuro del Sud è inscritto nel futuro d’Italia e d’EuropaLo sviluppo del Mezzogiorno e il superamento definitivo della questione meridionale è oggi più che mai interesse di tutta l’Italia.
* campi obbligatori

Seguici sui social