25 gennaio 2021   Articoli

Senza riforme l'Europa non ci aiuta

Amedeo Lepore - Il Mattino

Amedeo Lepore - Professore ordinario di Storia Economica - Università della Campania Luigi Vanvitelli

Mentre si inaspriscono i dati della pandemia e le varianti del virus, gravide di nuove preoccupazioni, si diffondono a livello globale, le istituzioni europee cercano di accelerare il passo delle vaccinazioni e delle misure per la ripresa. Undici Paesi (Portogallo, Grecia, Slovenia, Ungheria, Bulgaria, Spagna, Germania, Croazia, Repubblica Ceca, Francia e Slovacchia) hanno già presentato a Bruxelles una versione completa, ma non definitiva, dei rispettivi Recovery Plans. 

La Commissione europea si accinge a prorogare il regime agevolato per gli aiuti di Stato a tutto il 2021. Inoltre, è previsto per la metà di febbraio l’assenso del Parlamento europeo al dispositivo per la ripresa e la resilienza (RRF), avviando così la fase attuativa del regolamento. L’Italia ha depositato qualche giorno fa in sede comunitaria la bozza del proprio Piano di ripresa, ma appare incerta, non solo a causa della crisi politica, nella puntuale definizione delle strategie per affrontare i nodi strutturali emersi con più forza dopo la pandemia. 

La flessibilità dei tempi per la consegna del Recovery Plan alla Commissione europea non deve diventare, comunque, un nuovo alibi. In questi giorni, infatti, a partire da Gentiloni e Dombrovskis, si sono susseguiti i moniti delle autorità comunitarie al nostro Paese perché ha molto da fare per stabilire gli obiettivi finali e intermedi, le stime dei costi e per rispondere alle raccomandazioni della UE. 

La Lagarde, che si è detta pronta a ricalibrare l’acquisto dei titoli pandemici (PEPP) per mantenere condizioni di finanziamento favorevoli almeno fino a marzo 2022, ha sottolineato la necessità di un’operatività senza indugi del Next Generation EU di fronte al pericolo di una “doppia recessione” nell’eurozona. 

In questa situazione complicata e mutevole, il Piano italiano, nonostante i miglioramenti dell’ultima stesura, è ancora privo delle coerenze impegnative di un programma di rilancio della crescita ed è caratterizzato da almeno quattro criticità, che ne possono ostacolare la qualità e la tempistica. 

L’indicazione delle riforme è vaga e onnicomprensiva, quasi a voler includere tutti i disegni mancati in questi anni, laddove occorrerebbero interventi mirati e dettagliati, strettamente connessi all’oggetto prioritario dell’iniziativa, gli investimenti. Ma per renderli efficaci e produttivi sono essenziali proprio le riforme e la loro ownership nazionale. I progetti, non ultimati e frutto finora della selezione di centinaia di proposte disorganiche, presuppongono un indirizzo unitario e devono distinguersi per una spesa volta al lungo periodo, superando un’ottica meramente redistributiva e di breve termine. 

La previsione, oltre dei costi, dei risultati attesi e la simulazione dell’impatto del Piano rispetto ai traguardi intermedi e finali è un altro aspetto cruciale, che va collegato a indicatori affidabili, sia macro che microeconomici. La scelta della struttura di gestione, dopo lo stralcio della task force esterna, è rinviata a un atto successivo, pur essendo un elemento determinante per l’approvazione del documento. 

L’elaborazione di Assonime per una governance su tre livelli fornisce una base concreta, che potrebbe essere potenziata con il coordinamento e l’integrazione degli svariati organismi che si occupano di coesione e investimenti. Adottando procedure rapide, come quelle provate dalla Cassa per il Mezzogiorno, si potrebbe disporre di un’intelaiatura adeguata, senza la formazione di altre Agenzie, che esigerebbe troppo tempo. Del resto, nel rapporto “Doing Business” della Banca Mondiale, che esamina la facilità di fare impresa in 190 economie comparando i processi di riforma, l’Italia si colloca al 58° posto. 

Occorre, dunque, una netta sterzata, pena un programma rabberciato e il blocco delle risorse europee. Al di là anche delle carenze del PNRR, la condizione dell’Italia richiede l’adozione di un nuovo modello istituzionale, economico e sociale. Sul versante decisivo della politica, lo spettacolo è sconfortante. C’è una politica cattiva che rischia di traslare la legge di Gresham in questo contesto, scacciando la buona. 

Una politica miope si sta barcamenando tra i due estremi della navigazione a vista e del ricorso immediato alle urne, mentre il Paese avrebbe bisogno di un cambiamento epocale, che non è mai stato possibile prima d’ora in dimensioni di tale portata, grazie alla riscossa e alla potente manovra finanziaria dell’Europa.

Solo l’audacia di rovesciare abitudini e paradigmi consolidati, evitando le tristi rincorse ai trasformismi, e di realizzare una svolta radicale, vincendo particolarismi e circuiti di favore, è la strada per allontanarci dal precipizio e ridare speranza in una prospettiva di sviluppo e competitività dell’Italia. Chissà se ne saremo capaci.

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