La morte fa riflettere sulla vita
Sebastiano Maffettone - Corriere del Mezzogiorno
Nelle ultime settimane, siamo stati sommersi dalle immagini sulla guerra in Ucraina. Immagini brutali, anche se talvolta inevitabili. Immagini appena attutite dal brusio continuo e molesto dei commenti e delle opinioni. Con l’evidenza di una mortificazione dei corpi che è poi il significato ultimo della guerra. Una guerra in cui di sicuro c’è l’aggressore e l’aggredito tra cui distinguere. E persino un po’ di geopolitica da digerire. Ma che è soprattutto esibizione oscena di morti e feriti. Dolore, distruzione e morte che circolano 24 ore su 24 attraverso i network. Roba che ci arriva dentro, invade i nostri sogni, trasforma il nostro presente, sfigura la nostra fantasia. Ritornano alla memoria i racconti dei padri che erano stati in guerra. Riappaiono scene che pensavamo di non vedere più per sempre. Quei cadaveri -che vediamo nei tg- abbandonati al suolo dopo che sono passate le armi non possono non avere conseguenze. La brutalità dei fatti bellici ci invita così a pensare sulla fragilità che contraddistingue la nostra natura di corpi spirituali in cerca di un senso che non riusciamo a trovare.
Avete mai pensato al fatto che vedere la morte da vicino fa riflettere come non mai sulla vita? E la morte l’abbiamo vista da vicino almeno due volte in questo periodo. Intendo, come si sarà compreso, prima a causa della pandemia e poi a causa della guerra in Ucraina. Per cui, se non mi sbaglio, abbiamo avuto due formidabili occasioni per pensare alla vita. Da notare che -quando parlo di ciò- non ho in mente vaghe proposte di emancipazione morale individuale e collettiva. Del tipo “sarò-saremo” più buono (i). No, piuttosto mi vengono in mente reazioni più immediate e con ogni probabilità meno impegnative (nel senso che richiedono meno impegno). Ricadute emotive, o transfer da commozione, se preferite. Qualcosa, insomma, che c’entri col vissuto, con come vediamo noi stessi e la nostra esistenza nell’ambito dell’andamento generale delle cose. Forse, il nostro immaginario è cambiato e sta cambiando proprio da questo punto di vista.
Anche durante la pandemia, che per altro non è finita, abbiamo subito diversi shock. Il primo e più immediato è stato costituito proprio dalla morte attorno a noi. I camion carichi di cadaveri che escono da Bergamo sono una memoria tragica e permanente. Morte diffusa, e morte di persone care. Ma abbiamo subito anche l’isolamento, il distanziamento sociale e fisico. Siamo rimasti separati dagli altri per un periodo lungo. Sia la presenza della morte in prossimità, sia l’isolamento -a parer mio- ci hanno reso più consapevoli della nostra finitezza di corpi fisici. Che in quanto tali registrano sofferenze, hanno reazioni, scaricano impulsi, soffrono nella carne. Il fatto di non potere toccare gli altri, spesso di non potersi neppure avvicinare a loro, nemmeno per l’estremo saluto, ci hanno fatto sentire una mancanza radicale. Un bisogno di contatto. E la sofferenza spirituale è diventata indistinguibile da quella corporale. In maniera tutto sommato non troppo differente da quanto accadeva nei riti penitenziali che caratterizzavano l’appartenenza cristiana in tempi remoti. D’altronde, non è in fondo così strano che le tragedie della guerra e i morti della pandemia abbiano un effetto del genere. In fondo, tutta la mistica è basata sul principio dell’azione reciproca tra mente e corpo in una maniera che è impossibile esprimere nel linguaggio ordinario. E, facendo il verso a Wittgenstein, ciò che non si può dire spesso si sente nel corpo.
Ma forse è proprio l’idea normale di ciò che è ordinario che si allontana da noi, causa la percepita prossimità della morte. Un rimosso plurimo tende così a tornare a galla. Per esempio, ci rendiamo conto di come i nostri pensieri sulla globalizzazione e l’economia fossero ragionevoli certo ma vaghi. Quell’immaginario di un mondo soft in cui su un sottofondo di moquette algide personaggi fantasmatici organizzavano gli scambi commerciali in rete va dileguandosi al cospetto di lacrime e sangue. Al cospetto di uno stress endogeno (la guerra) e uno esogeno (la pandemia), quello che sembrava un equilibrio stabile si rivela come l’inizio di una transizione di fase, il segno di una fragilità strutturale. Sempre più si fa così spazio una paura hobbesiana, un’inadeguatezza profonda, un’impotenza radicale. Come negli incubi dell’adolescenza, un mondo di certezze si sgretola al cospetto di un inconscio che grida nel buio, circondato da mostri tetragoni. Ma forse, come si dice, non tutti i mali vengono per nuocere. Forse tutto questo ci consente di vivere con più umiltà e meno arroganza. Non siamo più personaggi da nonsisadove ma attori sempre in qualche luogo con terminali in noi. Sarebbe a dire, e questa è la parte buona della vicenda, meno onnipotenza interiore e più senso del limite. Forse, è indispensabile ogni tanto riportare i grandi teoremi al suolo, e far rientrare lo spirito nei ranghi di un vissuto che non può prescindere dal corpo, dal locale, dal contingente.
Chissà…
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