Mezzogiorno in movimento, la sfida della mobilità sostenibile al Sud
Il position paper della Fondazione Merita presentato in occasione del convegno del 3 dicembre 2024
Position paper a cura di Giuseppe Coco e Claudio De Vincenti
Premessa
Il tema della mobilità sostenibile è centrale nella complessiva strategia di decarbonizzazione adottata dal nostro Paese nel contesto comunitario. Di tutti i capitoli della transizone energetica, sicuramente quello relativo alla mobilità è il più sfidante e per questo è quello che va affontato con più urgenza in termini di politiche economiche. Ciò dipende in parte dall’aumento della stessa mobilità - in particolare in alcuni comparti come quello aereo, aumentato del 144% circa dal 1995 - ma anche dalla minore capacità di abbattere le emissioni rispetto ad altri settori. A fronte degli obiettivi ambiziosi di riduzione stabiliti dall’Unione Europea, le emissioni da trasporto sono cresciute nella UE da 828 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti nel 1992 a 1141 milioni nel picco del 2007 e dopo alcuni anni di decrescita hanno ripreso a crescere per portarsi nel 2018 e nel 2019 a circa 1100 milioni (+33%), per poi diminuire marginalmente nel 2022 (-26% rispetto al 1990). Complessivamente le emissioni di gas serra dal settore dei trasporti si attestano nel 2022 al 29% del totale dell’Unione. Nello scenario previsto in base alle politiche correnti degli Stati membri, si prevede che le emissioni di gas a effetto serra prodotte dai trasporti diminuiranno nella UE di circa il 14 % nel 2030 e del 37% nel 2050 rispetto ai livelli del 2022. Si tratta di una riduzione insufficiente dati i target posti dai documenti programmatici. Sono pertanto necessari maggiori sforzi per raggiungere l'obiettivo comunitario di ridurre le emissioni dei trasporti del 90 % entro il 2050.
Secondo la European Environment Agency le navi producono il 13,5 % di tutte le emissioni di gas serra prodotte dai trasporti nell'UE, dietro le emissioni del trasporto stradale (71%) e del trasporto aereo (14,4 %). I trasporti su gomma si confermano quindi la modalità prevalente nel generare emissioni, ma secondo le previsioni della Commissione dovrebbero fornire un contributo importante negli anni a venire alla decarbonizzazione: in ragione della insufficienza dei progressi negli ultimi anni e la maggiore cogenza dei vincoli al 2035, il Consiglio Europeo ha recentemente approvato il divieto di vendita di veicoli a combustione endotermica a partire dal 2035; una misura drastica che avrà un impatto significativo e asimmetrico sull’industria automobilistica dei diversi paesi, da accompagnare con iniziative per la riconversione industriale nei territori colpiti, tra cui molti nel Mezzogiorno. Riguardo alle altre modalità di trasporto, le emissioni sono aumentate dal 1990 per il trasporto marittimo internazionale (+35%) e soprattutto per il trasporto aereo (+118%), anche qui soprattutto nel comparto internazionale. L’aumento di emissioni in questo ultimo caso deriva da un aumento degli spostamenti, nonostante un miglioramento della efficienza energetica.
L’Italia presenta dinamiche non troppo differenti da quelle europee. Se guardiamo al solo traffico nazionale ovviamente la modalità su gomma è responsabile di quasi tutte le emissioni (aereo e marittimo si concentrano sull’internazionale). Le misure di efficienza in termini di emissioni per passeggero/Km e di ton/Km faticano a migliorare come altre misure di efficienza energetica, anche se l’efficienza dei veicoli è senz’altro migliorata. Nella Figura qui sotto si vede come il miglioramento sia marginale per quanto riguarda auto e altri veicoli, un po' maggiore per bus e veicoli pesanti, anche se per questi ultimi con andamenti non lineari. Combinati con l’aumento significativo della mobilità per la forte elastricità al PIL, questi indicatori spiegano le difficoltà di riduzione delle emissioni nel comparto dei trasporti.
GhG per pas/Km e T/km, Italia
Fonte: Ispra, 2024
Nel nostro Paese, contrariamente a una vulgata diffusa, e anzi probabilmente anche per effetto di prezzi relativamente alti (cfr. infra), i miglioramenti nell’efficienza energetica sono sempre stati notevoli nell’industria. Nel grafico di sotto vediamo la intensità energetica per unità di valore aggiunto in diversi settori: i contributi principali alla decarbonizzazione (a parità di VA) vengono dal settore dei servizi e dal settore industriale, mentre il settore dei trasporti nei fatti stenta a iniziare il processo di discesa dell’intensità energetica.
Fig. Contributi alla decarbonizzazione: Carbon intensity
Fonte: ISPRA, 2024
Energia e competitività industriale
La centralità del settore energetico ai fini della competitività dell’industria nel nostro paese e del continente è un fatto immediato, al punto che per il rapporto Draghi è una delle tre questioni centrali per la competitività dell’Unione Europea. La transizione energetica quindi va inquadrata in un contesto che non può prescindere dalla questione della competitività stessa, ma anzi che sia ad essa strumentale. Scelte passate, anche regolamentari, e dotazioni naturali rendono il continente notoriamente poco competitivo sul piano energetico. I prezzi di gas naturale ed elettricità in Europa sono oggi tra le due e tre volte più elevati che nelle aree economiche direttamente in competizione con il continente, nonostante il relativo miglioramento della situazione dopo i picchi di prezzo raggiunti a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina nel 2022. Non solo, ma il settore energetico soffre di una situazione di strutturale dipendenza strategica da fonti esterne, al contrario di nuovo di quanto accade nelle principali aree economiche concorrenti. Lo stesso recente relativo, ma preoccupante, declino della produzione registrato dalle due principali potenze industriali del continente, Germania ed Italia, va in effetti letto anche alla luce di queste debolezze strutturali. È importante avere consapevolezza che, se la transizione pone per la prima volta l’Europa in condizione di costruire la propria autonomia strategica in campo energetico, questo può avvenire a condizione che essa non precostituisca una ulteriore dipendenza sulle materie prime critiche e allo stesso tempo con la coscienza che nella transizione avremo bisogno ancora di fonti fossili in abbondanza, pena la deindustrializzazione precoce e una importante perdita di capacità produttiva. Non si può quindi escludere nel prossimo decennio che la transizione ci esponga ancora a crisi di disponibilità o di prezzi sulle fonti fossili.
La transizione nel campo della mobilità necessita di alcune condizioni essenziali. Sia per l’industria che per le attività di consumo abbiamo bisogno di prezzi dei vettori energetici sostenibili più bassi. Un esame dei prezzi dell’energia nel nostro paese purtroppo rivela una differenziale notevole nell’impatto dell’uscita dalla pandemia prima e della crisi russa poi sui prezzi energetici tra paesi UE, pur riassorbitosi nel 2023. Per circa 2 anni, almeno da metà 2021 a metà 2023, i prezzi del gas e dell’elettricità per le imprese in Italia sono stati stabilmente su una scala diversa da quelli europei (a loro volta più elevati in media di quelli degli altri continenti).1
Difficile non constatare i danni della scarsa differenziazione e di scelte ideologiche del passato considerando che se guardiamo al mix di capacità produttiva di elettricità nel nostro paese c’è una voce mancante che sicuramente in una crisi pesa molto: il nucleare. Inoltre, la scarsa differenziazione degli approvvigionamenti di gas naturale ha costretto ad investimenti urgenti ed anche per questo costosi per evitare rischi alla sicurezza energetica. Questi a loro volta rendono elevati i prezzi dell’elettricità.
La transizione non si può permettere una ulteriore crisi ed è necessario affrontare due aspetti messi in luce dal rapporto Draghi. Da un lato la questione dei meccanismi di mercato. Il Rapporto mette in luce che nel mercato all’ingrosso l’Italia è ancora il paese in cui per quasi tutto il tempo il prezzo del gas naturale determina anche il prezzo dell’elettricità. Dall’altro va affrontato il problema del deployment tempestivo delle infrastrutture e della nuova capacità di produzione di rinnovabili. La materia è sotto riforma complessiva con uno Schema di Decreto Legislativo in approvazione in Parlamento, ma nuovi rischi sorgono a seguito della forte discrezionalità delle regioni in materia di aree in cui non si possono fare nuove installazioni (con effetti addirittura retroattivi come in Sardegna). Il target di consumi energetici coperti da rinnovabili per l’Italia al 2030 è del 39,4%. Per capire il nostro passo basti considerare che dal 2021 al 2022 questa quota è aumentata dal 18,9 al 19,1%. È necessario un cambio culturale e politico radicale.
PNRR, mobilità sostenibile, vettori energetici
Come sappiamo una delle sei missioni del PNRR è dedicata alle infrastrutture per la mobilità sostenibile. Si tratta del 13 per cento delle risorse del PNRR (comprensive del Fondo Complementare) con circa 23 miliardi di euro dedicati in gran parte alla costruzione di infrastrutture ferroviarie ad alta velocità, di cui una quota del 42 per cento nel Mezzogiorno. A margine ci sono misure sul TPL e di mobilità ‘dolce’. La spesa effettiva monitorata da Openpolis ad oggi è di 6,8 miliardi nel comparto ferroviario (circa il 27 per cento) e di soli 600 milioni dei 7 miliardi previsti per il TPL.
Ma se ferroviario e rinnovo del parco mezzi del TPL possono fare affidamento nel lungo periodo sul vettore elettrico e se altrettanto vale per il settore automotive (vedi oltre) alla luce delle tendenze che vanno profilandosi a livello di competizione internazionale tra paesi, più ancora che in ragione della forzatura europea sul 2035, altri settori devono poter contare su una disponibilità di vettori energetici diversi: per i settori cosiddetti hard to abate – il trasporto marittimo, quello aereo e probabilmente per un periodo ancora non breve il trasporto pesante su gomma – occorre predisporre le condizioni per mettere a disposizione carburanti e gas in grado di abbattere le emissioni in misura significativa e in tempi rapidi. In particolare, per il trasporto marittimo si tratta di creare nei porti non solo le infrastrutture, peraltro fondamentali, per il cold ironing (ossia la fornitura di elettricità per alimentare le navi in sosta senza mantenere attivi i motori), ma anche le infrastrutture di rifornimento per una nuova generazione di mezzi navali alimentati a gas naturale o a carburanti a basse emissioni (biogas in prospettiva). Per il trasporto aereo, l’opzione al momento più percorribile è quella dei biocarburanti, i cosiddetti SAF (sustainable aviation fuels), e in prospettiva degli e-fuels.
La transizione energetica a fini di abbattimento delle emissioni di sostanze inquinanti nonché a fini di sicurezza energetica richiede la predisposizione di infrastrutture di trasporto e di rifornimento sia sul versante elettrico – colonnine di ricarica, connessioni con le reti di distribuzione, diffusione del trasporto su ferro – sia sul versante dei gas e dei carburanti a basso e, in prospettiva, nullo contenuto di carbonio. Si tratta di investimenti ingenti, rispetto ai quali le risorse del PNRR hanno fornito solo una prima fonte di finanziamento e che richiedono di predisporre da subito spazi di bilancio pubblico e strumenti di finanziamento adeguati per gli investimenti privati. Ed è chiaro che sono centrali in questa prospettiva la capacità di disegno imprenditoriale e la forza finanziaria delle grandi imprese energetiche e infrastrutturali italiane ed europee.
L’idrogeno è una opzione praticabile?
In un precedente seminario abbiamo esplorato le possibilità di una transizione basata parzialmente sull’idrogeno. L’idrogeno presenta caratteristiche che lo rendono una sorta di silver bullet per la decarbonizzazione soprattutto di settori hard to abate data la sua potenza come carburante. E certamente presenta caratteristiche dal punto di vista della sicurezza energetica che lo rendono ideale, data la scarsa necessità di materiali rari o distribuiti in maniera penalizzante per l’Europa. Il settore nel quale l’idrogeno sarebbe sicuramente decisivo è quello dei trasporti sostenibili. La produzione di idrogeno al momento è di fatto interamente da fonti fossili (idrogeno grigio) e quindi non comporta impatti di decarbonizzazione. Una produzione di idrogeno verde, cioè da fonti rinnovabili (REF), implica una significativa espansione dei siti produttivi di REF e un loro forte coordinamento con gli impianti di produzione di idrogeno. Esistono poi problemi importanti nello stoccare, trasportare e distribuire l’idrogeno. Il trasporto impatta fortemente sui costi finali e pone particolari questioni di sicurezza. Sulla breve distanza è possibile trasportare l’idrogeno su strada con una buona efficienza. Su medie e lunghe distanze la questione diventa complessa e va affrontata con riferimento alla convertibilità delle attuali infrastrutture di trasporto del gas. Al momento gli esperimenti di utilizzo dell’idrogeno passano principalmente per il coordinamento tra produzione e consumo in loco su mezzi di trasporto specificamente dedicati.
In sintesi, per lo sviluppo e l’utilizzo su vasta scala dell’idrogeno si tratta di risolvere problemi tecnologici in cui l’incertezza del risultato finale è ancora significativa: di qui l’esigenza di rafforzare gli investimenti in ricerca e sperimentazione di cui abbiamo parlato nel seminario sopra richiamato. In ogni caso anche per l’idrogeno una ripresa del deployment di capacità rinnovabile risulta una precondizione necessaria così come un coordinamento forte dei sistemi di produzione, trasporto e utilizzo dell’energia.
Le implicazioni sulle filiere industriali
Le riflessioni condotte sopra sul ruolo dei diversi vettori energetici nell’ambito delle diverse modalità di trasporto e delle opzioni per ognuna di esse praticabili nel breve e nel medio-lungo periodo portano con sé analoghe riflessioni sui compiti che stanno di fronte alle imprese delle corrispondenti filiere industriali ai fini di una riconversione verso mezzi di trasporto che riducano e in prospettiva azzerino le emissioni. Così, nella produzione di mezzi di trasporto marittimo di grande tonnellaggio i passaggi che attendono le imprese del settore sono nel breve termine essenzialmente la predisposizione delle navi al cold ironing e la conversione verso motori alimentati a gas e biogas e, ma in una sperabile prospettiva di più lungo periodo, a idrogeno: sembrano queste le opzioni cui Fincantieri, la maggiore impresa italiana, sta guardando, anche se non mancano sperimentazioni da parte di diverse imprese nella predisposizione di imbarcazioni a trazione elettrica e non solo nell’ambito dei mezzi di trasporto di minori dimensioni e della navigazione da diporto. Nella produzione di mezzi di trasporto aereo, a sua volta, le opzioni in campo riguardano nell’immediato l’efficientamento energetico dei motori a trazione tradizionale, la loro predisposizione all’utilizzo di miscele composte da quote crescenti di biocarburanti (che sono caratterizzati da una forte omogeneità rispetto al carburante tradizionale), la sperimentazione e ormai prossima commercializzazione di velivoli leggeri a trazione elettrica per distanze brevi (la cosiddetta urban advanced air mobility), anche se non mancano investimenti - soprattutto in ricerca – per l’utilizzazione dell’idrogeno (per esempio da parte di Airbus).
Ma mentre nei settori ora menzionati le imprese europee appaiono ben posizionate per affrontare la transizione, maggiori difficoltà e incertezze si presentano per quelle del settore automotive (autovetture e veicoli commerciali): tre i principali fattori all’opera. Da un lato, il lungo ciclo recessivo della crisi pandemica e del conflitto ucraino sta avendo un impatto sulla domanda che per la prima volta (salvo poche eccezioni) interessa tutta l’Europa e si somma alla riduzione significativa delle esportazioni; l’assenza di compensazioni territoriali influenza pesantemente le dinamiche produttive di imprese che operano su scala sovranazionale. Per quanto riguarda l’Italia, il grafico evidenzia l’andamento della produzione con la brusca discesa a partire dal 2023/24 che continuerà nelle previsioni anche nel 2025
In secondo luogo, l’incertezza normativa rende ancora più difficile la già complessa transizione tecnologica: alla affermazione di tempi stringenti, è seguita una riflessione che coinvolge sia il Parlamento Europeo sia la stessa Commissione. In questo contesto, le imprese sostengono strategie differenti: Stellantis afferma di non poter rinunciare alla propria pianificazione coerente con i tempi dichiarati dal decisore comunitario, mentre altre imprese (a partire dalle maggiori imprese tedesche e francesi) ritengono necessaria la revisione della road map. A ciò si aggiunge la riflessione sulla “prospettiva total electric” vs la “neutralità tecnologica”, con l’Italia impegnata nel sostegno della seconda opzione che prevede anche la possibilità di continuare l’utilizzo di motori a combustione interna con uso di biocarburanti. Appare inopportuno che, mentre è aperta una discussione sulla migliore strategia da seguire, Bruxelles pensi di punire con una multa miliardaria le imprese che non hanno rispettato gli obiettivi di riduzione della CO2.
Infine, il confronto ineludibile con la strategia del Governo cinese che da tempo sta massicciamente sostenendo lo sviluppo della trazione elettrica. L’imposizione di dazi alla importazione, decisa in modo selettivo dalla Unione Europea, è una risposta di breve periodo, volta a consentire alla nostra industria di recuperare parte del gap tecnologico. Non è però certamente la risposta più adeguata perché la chiusura dei mercati penalizza ancor di più un settore che agisce su scala globale ed ha forti interessi in Cina.
Siamo dunque in un momento cruciale del processo di trasformazione di un settore produttivo strategico non solo per le ripercussioni sui futuri modelli di vita e di relazioni sociali (trasporti, ambiente, smart city, welfare …), ma anche sugli equilibri economici e produttivi tra le grandi aree in cui si articolerà sempre più il mondo, con l’Europa che rischia di perdere la sua centralità.
In questo contesto, qual’è la strategia dell’l’Italia? Quale contributo è possibile per impedire il degrado continentale? E soprattutto, in qual modo è possibile evitare pesanti conseguenze sulla industria e sulla occupazione del Mezzogiorno, dove significativa è la presenza del settore automotive? Una risposta a queste domande dovrebbe muovere su quattro fronti.
Impegno industriale e tecnologico. Ricerca, innovazione e produzione sono tre momenti inscindibili e su questo si stanno positivamente percorrendo strade che interessano in modo importante il Sud. Le imprese impegnate – con importante sostegno finanziario pubblico – sono indirizzate verso l’engine elettrico (le batterie di nuova generazione, con impianti a Caserta ed a Termoli), lo sviluppo dei biocarburanti - con ENI in posizione avanzata nella trasformazione delle proprie raffinerie da petrolio a Biodiesel (a Gela ed ora anche a Priolo) e Snam impegnata nella realizzazione di un liquefattore (a Caserta) in grado di liquefare Biometano e rendere disponibile BioGNL per il trasporto pesante - e infine, non meno rilevante, il sostegno alla industria della microelettronica che per le vetture del futuro sarà sempre più centrale, dove il plant di Catania (per il quale si prevede il raddoppio) avrà sempre più una funzione strategica a livello globale. Da qui si deve partire per consolidare ed estendere la presenza in altre attività che le competenze diffuse e la presenza di infrastrutture adeguate (il sistema di collaudo di Noto, ad esempio) rendono concretamente possibile. Il Sud può oggettivamente candidarsi ad un ruolo centrale per lo sviluppo delle nuove autovetture ad impatto zero. Il ruolo pubblico è essenziale non solo per il sostegno finanziario, ma soprattutto per una forte azione di stimolo ad intraprendere rivolto alla imprenditoria locale e nazionale. Si deve tener presente che la nostra produzione di batterie è comunque ancora di molto inferiore a quel che si prevede in Germania, Francia e Norvegia.
Sostegno alla filiera ed al mercato. L’approccio strategico non può e non deve dimenticare quel che oggi abbiamo davanti: una crisi che coinvolge centinaia di imprese dell’indotto (molte delle quali piccole e monocliente). Secondo la rilevazione dell’Ufficio Studi di Confartigianato, la filiera “lunga” del settore auto (che comprende anche gli autoriparatori) in Italia occupa 557 mila lavoratori distribuiti in 175 mila imprese (il 69% lavora in imprese con meno di 50 addetti). Stime sindacali indicano in oltre 20 mila gli addetti a rischio disoccupazione nelle imprese che direttamente producono autovetture. L’impegno deve riguardare la tutela del reddito (ammortizzatori sociali), ma soprattutto due altri interventi strategici: strumenti per la internazionalizzazione dell’offerta e conseguente aumento della dimensione aziendale e della capacità commerciale e massiccio intervento per la riqualificazione professionale. Su quest’ultimo punto si pensi anche solamente a quel che potrà succedere per le migliaia di officine di riparazione oggi del tutto impreparate a gestire la trasformazione elettrica dell’autovettura.
Allargamento del comparto e attrazione di nuovi investitori. L’Italia è il solo tra i maggiori Paesi europei ad ospitare un solo imprenditore automotive: Stellantis (ex FCA nonché ex FIAT). Il mercato viceversa è aperto (correttamente) a qualsiasi produttore indipendentemente dalla sua sede e anche i costruttori cinesi hanno già trovato spazio con le forniture per la produzione di autovetture a marchio “DR”. La distorsione della struttura produttiva italiana, mitigata parzialmente in passato con la presenza di una impresa di stato a fianco di FIAT, mostra tutta la sua fragilità in questo momento di crisi e transizione. Ci si deve domandare, rapidamente, se e come mettere mano ad una distorsione della offerta nazionale di autovetture e se, in assenza di possibili attrazioni di marchi europei, non sia necessario stimolare con incentivi l’insediamento di produttori del far east in grado di portare capacità produttiva e crescita tecnologica. Il nostro Mezzogiorno, con la sua cultura automobilistica, accompagnata da una forte disponibilità di competenze tecnico-scientifiche e le importanti potenzialità portuali, è un candidato ideale a nuovi insediamenti di produttori di autovetture che si aggiungano alla presenza di Stellantis.
Confronto serrato nelle istituzioni. Infine è fondamentale sostenere in ogni sede istituzionale il recupero di una “centralità dell’Europa” fondata sui seguenti pilastri:
una transizione green basata su obiettivi chiari e realistici. A partire dalla constatazione che il nostro Continente è il più avanzato (con risultati evidenti e riconosciuti) sul fronte della transizione “carbon free” ma rischia di essere emarginato per astratto fondamentalismo. Sulle politiche industriali è necessaria una rapida verifica e revisione degli obiettivi senza attendere il 2026. Bene sta facendo il Governo italiano, in accordo con Francia e Germania, a chiedere la riapertura del confronto già dai primi mesi del 2025;
ricerca comune su filoni strategici con fondi comunitari. Va accelerata la ricerca su tre filoni fondamentali per il futuro della mobilità sostenibile: le batterie per il motore elettrico, la componentistica microelettronica per il governo della mobilità (veicolo e territorio), la disponibilità di materiali rari e necessari per lo sviluppo dei nuovi componenti e delle apparecchiature di controllo della mobilità in logica Smart city;
sostegno della filiera favorendo aggregazioni competitive. La proliferazione nazionalistica delle case produttrici e dei fornitori di componenti ha portato l’Europa ad essere il continente con il maggior numero di case costruttrici e quello con il maggior numero di piccole imprese fornitrici. E’ evidente che si pone la necessità di una razionalizzazione nell’ottica di favorire aggregazioni, la crescita dimensionale e il miglioramento significativo della produttività dei fornitori di componenti. Diversamente l’industria europea di settore è destinata ad essere sempre più marginale;
contrasto alla strategia protezionistica e sostegno alla politica degli scambi e degli accordi con interessi reciprocamente rappresentati e riconosciuti. Resta da verificare se, in questa fase di svantaggio competitivo della nostra industria di settore, deve essere privilegiata una temporanea tutela evitando una saturazione di mercato (soprattutto dei costruttori del far east) poi difficilmente recuperabile. Il decisore politico deve saper coniugare ragionevole protezione e accelerazione dello sviluppo.
1 Ci sono pochissime eccezioni. La Polonia sembra l’unico paese in cui la crisi del gas ha avuto un impatto più duraturo anche se il picco dei prezzi si è verificato in Italia.
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