Mezzogiorno e Recovery Plan: un Piano coerente e operativo per la coesione
Giuseppe Coco e Claudio De Vincenti - Policy brief Astrid
Una visione unitaria e nazionale per il Recovery Plan
La bozza di Recovery Plan resa pubblica all’inizio di gennaio contiene interessanti novità nella prospettiva delle politiche di coesione ma risente ancora troppo, come vedremo in questa Nota, di una impostazione legata alla divisione delle risorse su una base che rispecchia la composizione ministeriale governativa.
A sua volta, la distribuzione territoriale delle risorse è stata al centro nel mese scorso di polemiche di vario segno, in particolare ispirate da una propaganda rivendicazionista che utilizza impropriamente la formula di attribuzione delle risorse a livello comunitario come fosse meccanicamente applicabile per una loro ripartizione a livello regionale. Tale propaganda è stata sfortunatamente ripresa da una lettera che tutti i Presidenti delle Regioni meridionali hanno inviato al Presidente del Consiglio del Ministri per rivendicare una quota di risorse pari ai due terzi del fondo. Con il corollario, caratteristico del rivendicazionismo spartitorio, di una totale assenza di indicazioni riguardo ai progetti su cui investire.
In realtà, se si vuole che il Recovery Plan sia l’occasione per avviare finalmente un percorso di stabile riduzione del divario tra il Mezzogiorno e il Centro-Nord del nostro Paese, la sua elaborazione e poi la sua attuazione devono rispondere a una visione unitaria e nazionale, antitetica a pretese spartizioni territoriali. E’ il caso di ricordare come proprio una simile visione, impermeabile alla frammentazione regionalistica, fu quella che guidò la Cassa per il Mezzogiorno nei suoi primi venti anni di attività, l’unico periodo in cui si riuscì a realizzare un processo continuativo di riduzione del divario tra Sud e Nord, che contribuì alla riduzione del divario tra l’Italia e i Paesi europei più avanzati[1]. E proprio l’abbandono di quella visione, sulla spinta di interessi particolaristici e di un consistente trasferimento di poteri e risorse, a seguito della costituzione delle Regioni, verso i livelli decentrati di governo, determinarono la successiva involuzione della Cassa, il blocco dello sviluppo produttivo e l’inizio di una stagione di assistenzialismo.
Oggi è vitale per il Mezzogiorno che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ritrovi come stella polare della sua elaborazione quella visione nazionale dello sviluppo del Sud come parte integrante dello sviluppo del Paese e possa contare su una forte capacità centrale di indirizzo e gestione degli interventi.
Non è un caso, del resto, che l’Unione Europea individui lo Stato quale responsabile dell’attuazione della strategia e ad esso, non alle Regioni che ne fanno parte, assegni le risorse. Ed è al Governo nazionale che la Commissione chiede di costruire un Piano di ripresa e resilienza (PNRR) organizzato per missioni e programmi di cui lo Stato Membro deve “dimostrare la coerenza complessiva”. L’approccio scelto dalla Commissione Europea esclude quindi la regionalizzazione delle risorse di Next Generation EU. La coesione territoriale deve essere piuttosto – secondo l’impostazione della Commissione - un filo rosso che traversa tutte le missioni e i programmi di cui si compone il PNRR.
E’ compito del Governo impostare il Piano in modo che questo filo rosso sia tenuto ben saldo e visibile, così da unificare realmente il Paese contro i rivendicazionismi contrapposti che si annunciano. E su questo è giusto che il Governo sia chiamato a rendere conto: perché è interesse nazionale che il tessuto produttivo meridionale si irrobustisca in modo da rafforzare le filiere produttive che percorrono l’Italia da Nord a Sud, così come lo è una rete omogenea di servizi di cittadinanza, o ancora è interesse nazionale che il Mezzogiorno diventi piattaforma logistica e produttiva dell’Italia e dell’Europa verso il Sud e l’Est del mondo.
La necessaria capacità centrale di indirizzo e gestione del Piano non significa escludere un ruolo di Regioni e Comuni, all’opposto significa valorizzarlo per ciò che esso deve essere, liberandolo proprio dalle pretese spartitorie che da tempo paralizzano il Paese e in particolare il Meridione. Il compito delle istituzioni regionali e locali è duplice: far emergere le priorità delle loro comunità affinché esse entrino nella costruzione del Piano nazionale di ripresa e resilienza; saper dare effettiva realizzazione a quelle componenti dei programmi che spetterà a loro attuare. E’ su questo che a loro volta Regioni e Comuni saranno chiamati a rendere conto.
L’attuale PNRR risponde a questa ispirazione?
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) da poco approvato dal Consiglio dei ministri, cerca, nell’impostazione generale che lo introduce, di delineare una visione d’insieme articolata su sei missioni generali: digitalizzazione, innovazione e cultura; transizione verde; infrastrutture per la mobilità sostenibile; istruzione e ricerca; inclusione e coesione; salute. L’impostazione può essere ulteriormente semplificata, come vedremo. Ma quando dal quadro generale si passa all’allocazione delle risorse sulle singole componenti e linee di azione per l’arco temporale del Piano (2021-26), il filo si perde tra proliferazione di interventi minuti e sottodimensionamento di programmi che invece dovrebbero esserne l’asse portante.
Non mancano, nel documento approvato, alcune correzioni miglioratuve rispetto alle bozze circolate in precedenza: risulta per esempio più contenuta, per quanto ancora presente, la dispersione delle risorse in interventi microsettoriali e in bonus vari; viene proposto un primo aumento, pur insufficiente, degli investimenti infrastrutturali; crescono le risorse per la sanità; si comincia a delineare un collegamento con i progetti del Fondo sviluppo e coesione e dei Fondi strutturali europei, che per l’obiettivo della coesione è di particolare interesse. Ma nel complesso, il Piano appare ancora al di sotto di quanto sarebbe richiesto dalla straordinarietà dell’impegno cui il Paese è oggi chiamato.
Per cominciare, la coesione territoriale compare in duplice veste, sia come missione di intervento, assieme all’inclusione sociale, sia come dimensione orizzontale che dovrebbe informare tutte le diverse missioni. Questa doppia veste, lungi dal valorizzare il tema, genera confusione confermando anche in questo caso la natura parcellizzatoria del Piano, ossia l’esigenza di coprire tutte le aree in maniera da presentare una cifra per tutti. La coesione deve invece costituire una priorità orizzontale alle diverse missioni, al cui interno deve essere richiamata e resa concreta la necessità di investire risorse specifiche per il Mezzogiorno.
Anche perché la missione specificamente dedicata a “Inclusione e coesione” sembra davvero una specie di categoria residuale in cui far convergere una miscellanea incoerente di interventi (tra cui il servizio civile e lo sport). Sarebbe bene, al contrario, riuscire ad esprimere un Piano che non sia pensato a compartimenti, per accontentare i diversi interessi con misure da far risalire a un ministero o a una Regione. E avere coscienza che non tutto deve essere finanziato con i fondi di Next Generation EU, anche perché la Commissione ha indicato delle priorità chiare.
La prima voce poi della componente “Interventi speciali di coesione territoriale” – interna alla missione “Inclusione e coesione” - prevede un significativo finanziamento della Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI), cui vengono assegnati 1,5 miliardi di euro (collocandovi poi incomprensibimente anche la nascita di tre scuole nazionali per Vigili del fuoco). Va ricordato che la SNAI è certamente il caso più rilevante di assenza di operatività di un intervento previsto nella scorsa programmazione, come certificato dalla Relazione alla Legge di Bilancio, nella quale - nonostante si stanzino nuove risorse - si ammette che in 7 anni la strategia non è riuscita nemmeno a concludere l’iter per la stipula degli accordi quadro di tutte le aree interne identificate. A dicembre 2020 sono stati chiusi 42 AQ, circa due terzi dei previsti, e il termine per la chiusura di tutti gli accordi è stato spostato per la sesta volta dal CIPE (la prima era il 2015!) al giugno 2021. Allocare risorse del Recovery Plan a una strategia sperimentale che in 7 anni non è riuscita a decollare è davvero un azzardo inspiegabile: il rifinanziamento già operato dalla Legge di Bilancio con risorse nazionali sembra più che sufficiente per tentare finalmente di sbloccarla, passando peraltro per una sua ridefinizone radicale rispetto all’attuale fallimentare versione.
A loro volta, gli altri interventi di coesione, in particolare gli interessanti ecosistemi dell’innovazione al Sud e quelli sul patrimonio abitativo e la formazione nelle aree del terremoto, possono benissimo rientrare nelle missioni tematiche apposite.
Piuttosto, come si è detto, l’obiettivo della coesione territoriale deve percorrere in modo trasversale tutte le missioni del Piano, all’interno delle quali deve emergere con linee di intervento concrete la determinazione a investire risorse nel Mezzogiorno e la consapevolezza delle difficoltà aggiuntive che si incontrano nelle Regioni meridionali. Nello specifico, ad esempio per quanto riguarda la missione “Digitalizzazione, Innovazione, Competitività e Cultura”, si dovrebbe riconoscere il diverso grado di digitalizzazione delle amministrazioni nelle diverse aree del Paese e l’incapacità dimostrata da molte di esse nella realizzazione dei programmi in questo campo e quindi la necessità di un investimento differenziale nel Sud.
Anche per quanto riguarda la missione “Rivoluzione verde e transizione ecologica” il Piano dovrebbe sottolineare le necessità di investimenti al Sud, compresa la Strategia nazionale per l’Idrogeno, mostrando al contempo consapevolezza che l’assenza di grandi utilities nel Meridione rende necessaria un’azione proattiva da parte del Governo e delle grandi aziende nazionali, anche considerando il vantaggio competitivo del Mezzogiorno nelle rinnovabili. Analogamente le necessità differenziali di investimenti sulle risorse idriche e sul ciclo dei rifiuti vanno riconosciute e soluzioni vanno approntate per i casi di incapacità istituzionali più gravi[2].
Analogamente, le difficoltà che si prevede di incontrare nell’attuazione degli interventi contro la povertà educativa (una emergenza) e per l’edilizia pubblica, due comparti nei quali l’investimento nel Mezzogiorno deve essere comparativamente molto più consistente, vanno esplicitate e la governance deve prevedere la possibilità di sostituzione delle amministrazioni locali inadempienti in maniera molto tempestiva.
Sul versante incentivi, poi, nel passaggio dalla prima bozza al Piano attuale si è determinata una riallocazione di segno opposto a quello desiderabile: sono stati tagliati da 24,8 a 18,8 miliardi gli incentivi di natura automatica di Industria 4.0, ridenominata Transizione 4.0, per incrementare invece di 2-3 miliardi quelli sottoposti a discrezionalità amministrativa. Una riallocazione priva di senso dal punto di vista dello stimolo alla crescita, dato che il primo tipo di incentivi è molto più efficace del secondo per stimolare gli investimenti delle imprese. Piuttosto, sarebbe stato fondamentale per la coesione includere nel Recovery Plan un adeguato rifinanziamento del credito d’imposta per gli investimenti al Sud, una misura di incentivazione automatica essenziale per portare, sommandosi, Transizione 4.0 nel Mezzogiorno: nulla a questo riguardo si prevede nel Piano, mentre la Legge di bilancio stanzia per il credito d’imposta solo 2 miliardi contro i 18,8 che il PNRR assegna, giustamente come si è detto sopra, a Industria 4.0.
Restano infine sottodimensionati investimenti infrastrutturali fondamentali per il Paese e dalle evidenti implicazioni per la coesione:
· messa in sicurezza di strade, viadotti e ponti, interventi di cui vi sarebbe assoluto bisogno mentre vengono finanziati per soli 1,6 miliardi;
· logistica e portualità, cui vengono assegnati nel complesso meno di 4 miliardi nonostante dovrebbero costituire la via maestra per consentire all’Italia, e in particolare al Mezzogiorno, di essere protagonista degli scambi europei e mediterranei;
· impianti di chiusura del ciclo rifiuti, finanziati con solo 1 miliardo e mezzo, nonché risanamento delle reti idriche e di trattamento dei reflui, cui sono assegnati 4,4 miliardi; sono, questi, due temi fondamentali per la tutela dell’ambiente, su cui per di più pendono a Bruxelles numerose procedure di infrazione a carico dell’Italia;
· rigenerazione urbana e housing sociale, che vede stanziati solo 6,3 miliardi quando è questione dirimente per il futuro delle nostre città;
· l’assenza sostanziale di interventi per la bonifica e il rilancio produttivo dei siti industriali dismessi o in crisi, per i quali sono previsti solo 500 milioni per quelli di Taranto e del Sulcis.
Se si pensa che gli stanziamenti su interventi minuti, incentivi sovradimensionati (energie rinnovabili, pagamenti elettronici) e incentivi discrezionali raggiungono nel PNRR una somma che va da un minimo di 20 a quasi 40 miliardi, è chiaro che le risorse per correggere queste lacune non mancherebbero.
Naturalmente, come abbiamo accennato sopra, è probabile che alcuni dei sottodimensionamenti indicati derivino dalla carenza di progetti credibili a causa dell’inadeguatezza di molte delle amministrazioni che dovrebbero elaborarli e attuarli. È questo un ostacolo che diventa insormontabile se l’approccio resta quello fin qui seguito di limitarsi a recepire le proposte delle amministrazioni. È da questa impostazione che è urgente uscire per costruire una governance del Piano adeguata alla straordinarietà dell’impegno cui il Paese è chiamato: una governance in grado di conferire unitarietà alla strategia ed evitare, soprattutto per il Sud, che l’incapacità di progettazione e di spesa dimostrata in passato dalle amministrazioni trasformi anche questa occasione in una débacle. Al riguardo, rinviamo al recente documento di Assonime che ha indicato una soluzione semplice e chiara, che non pretende di esautorare le amministrazioni ordinarie ma che le integra e le sostiene con una catena di comando e con procedure e corsie preferenziali essenziali per elaborare e attuare gli interventi[3].
[1] Su questo punto si veda l’ampio lavoro di ricerca di Amedeo Lepore, anche con coautori
[2] Una proposta in questo senso è contenuta nel Position Paper che ha aperto il Webinar organizzato lo scorso 18 novembre dall’Associazione Merita: Non è un destino il Sud senz’acqua - Recovery Plan per servizi idrici efficienti, disponibile in www.associazionemerita.it. Per una trattazione più ampia del tema, cfr. Acqua per tutti. Investimenti nel comparto idrico e ruolo dei soggetti industriali, a cura di M.R. Mazzola, Paper Astrid n. 75, in Astrid Rassegna, n. 9/2020.
[3] Assonime, Quale assetto istituzionale per l’impiego dei fondi Next Generation EU, Interventi 22/2020.
Seguici sui social