17 giugno 2025   Notizie

Le incognite sul petrolio

Il Mattino

Amedeo Lepore - Professore ordinario di Storia Economica - Università della Campania Luigi Vanvitelli

L’offensiva militare decisa da Israele per interrompere la realizzazione di ordigni nucleari da parte dell’Iran avviene in quadro mondiale di sempre maggiore incertezza, rendendolo ancora più complicato. Mai come in questo momento è stato difficile far prevalere la razionalità, necessaria, tuttavia, per trovare soluzioni bilanciate a un groviglio di conflitti che rischia di produrre solo caos a mezzo di caos. In Medio Oriente, questa fase è iniziata con il sanguinario attentato di Hamas, che ha innescato una spirale di odio e di violenza in un territorio già in continua tensione, martoriato da guerre e feroci dittature. La risposta di Israele, da difesa dell’esistenza di un popolo e di una nazione minacciata da un nemico spietato, si è trasformata in un’azione bellica indifferenziata, con un vasto sterminio di innocenti. A questo panorama, fa da contrappunto il crollo di equilibri internazionali consolidati e una situazione di esteso subbuglio, in attesa di un riassetto geopolitico di là da venire. 

La debolezza dei vecchi protagonisti – non solo l’Europa, ma pure gli Stati Uniti – e la mancanza assoluta di una governance globale, anche in presenza di potenze emergenti, rende ancora più impervia la ricerca di un percorso per rimettere ordine e condurre verso un progressivo contenimento delle ostilità. L’intimidazione nucleare dell’Iran richiedeva un intervento fermo, ma non iniziative azzardate e unilaterali, con un ulteriore allargamento degli scenari di guerra. Del resto, il dilemma tra due esiti opposti di questa campagna, posto da un esperto come Richard Nephew del Washington Insitute for Near East Policy, rimanda a una prospettiva non immediata. Infatti, la replica più temibile da parte del regime iraniano si può manifestare nel lungo termine. Secondo Kenneth M. Pollack del Middle East Institute, Teheran potrebbe uscire dal Trattato di non proliferazione nucleare (TNP) del 1968 e “annunciare che costruirà armi nucleari come unico modo per scoraggiare attacchi contro l’Iran”, essendo già in possesso di uranio altamente arricchito per realizzare congegni nucleari e di notevoli disponibilità di materia prima (yellow cake) da poter arricchire per la produzione di ordigni, oltre che di molte centrifughe la cui ubicazione è sconosciuta. 

Il precedente storico della ripresa del programma nucleare dell’Iraq, dopo l’incursione israeliana contro il reattore di Osirak nel 1981, indica che, a distanza di qualche anno, competenze e apparati distrutti possono essere ripristinati, specie se un’infrastruttura nucleare come quella dell’Iran è più efficiente e alcuni dei suoi impianti sono inaccessibili dall’alto. Pollack, perciò, suggerisce che il modo migliore per evitare la ricostituzione delle capacità iraniane è la ricerca pressante di un accordo nucleare. Mentre l’Occidente afferma l’esigenza del blocco della dotazione di armi nucleari da parte del regime degli ayatollah, la comunità internazionale nel suo insieme predilige una soluzione diplomatica. I motivi sono diversi. Gli Stati Uniti rischiano il fallimento dei negoziati sul nucleare, abbandonati dall’Iran, e hanno bisogno di tutto, fuorché di una nuova inflazione. Solo un mese fa, durante la visita in Arabia Saudita, Trump aveva parlato di una “età dell’oro” del Medio Oriente, “definita dal commercio, non dal caos”. La Cina è alle prese con una crisi interna e necessita, per consolidare il suo ruolo, di una maggiore stabilità delle relazioni internazionali. 

L’Europa propende per una de-escalation come via per scongiurare, oltre alla deflagrazione bellica, una riduzione degli approvvigionamenti energetici e un aumento incontrollato dei prezzi. Subito dopo i primi attacchi, il prezzo del greggio Brent è salito di quasi il 9%, toccando i 74 dollari al barile. Finora, i mercati petroliferi erano rimasti calmi, nella convinzione che non si concretizzasse lo scenario di un conflitto totale tra Israele e Iran. Adesso si sta entrando in un panorama di questo tipo. Se il ciclo di raid (e ritorsioni) dovesse durare a lungo – “finché sarà necessario”, come ha dichiarato Benjamin Netanyahu – arrestando la produzione di greggio iraniano, la fornitura mondiale dovrebbe fare a meno di 1,7 milioni di barili al giorno. Pure nel caso di utilizzo delle scorte di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, secondo l’Economist, il prezzo del petrolio potrebbe crescere fino a 90 dollari al barile. Senza considerare la chiusura – ritenuta molto improbabile dagli analisti, per il peso degli interessi di USA, Cina e Iran stesso – dello stretto di Hormuz, attraverso il quale transita il 30% del petrolio trasportato per mare e il 20% del gas naturale liquefatto di tutto il pianeta. Tale evento, per la Société Générale, potrebbe innalzare il Brent a oltre 100 dollari al barile. Infine, se Teheran colpisse i più importanti siti di produzione petrolifera del Golfo, impossibili da difendere, secondo JPMorgan Chase i prezzi potrebbero superare i 120 dollari al barile, secondo ING Barings raggiungere addirittura i 150 dollari. Si tratta di ipotesi, che unite al valore strategico dell’area, fanno pensare con maggiore consapevolezza a una via d’uscita che contempli il tema economico. 

L’Europa deve intensificare la diversificazione degli approvvigionamenti, puntando ai giacimenti dei territori africani ricchi di materie prime e fonti energetiche. In generale, occorre tornare a valutare con molta attenzione il monito rivolto da Norman Angell ai vincitori delle ostilità. Non si tratta di mettere in discussione minimamente la sicurezza dello Stato israeliano né di deflettere dalla lotta ai regimi dispotici, ma di contrastare, come ha scritto sempre l’Economist, “una visione del mondo del tutto o niente che ha portato Israele alle guerre a Gaza, in Libano e ora in Iran”, mettendo mano a questo intrico. Soprattutto nel momento in cui alcuni Paesi arabi hanno aperto una fase inedita, fondata sulla coesistenza con Israele in base a motivi di sviluppo economico, che rischia di essere affogata nello scontro bellico. Il tentativo di fermare in questo modo le mire iraniane può tramutarsi in una trappola di distruzione violenta e instabilità, diventando una “minaccia esistenziale” anche per il popolo di Israele.

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