Abbiamo bisogno di immigrati
Nel pieno della stagione di Bilancio le prime pagine dei giornali sono stabilmente occupate dalle questioni riguardanti l’immigrazione. La questione ha ovviamente risvolti etici e giuridici che devono informare le decisioni politiche. Tuttavia, quello che mi colpisce di più è il carattere prevalente ideologico con cui si affrontano anche le questioni economiche.
La cecità ideologica riguarda prima di tutto chi rifiuta di vedere come ci sia l’esigenza di un flusso continuo e maggiore di immigrati regolari magari con l’argomento che gli immigrati sottraggono lavoro agli italiani. Certo al momento gli immigrati in Italia, in gran parte irregolari, entrano in concorrenza soprattutto con fasce di lavoratori svantaggiati e contribuiscono ad abbassare i salari, ma in molti casi sopperiscono ad esigenze che non sarebbero coperte. Inoltre, come ha fatto notare il governatore della Banca d’Italia, a trend immutati di immigrazione e demografia, ci troveremmo nel 2040 con una forza lavoro diminuita di 5,5 milioni di individui, ed un PIL reale minore del 13 per cento. Uno tsunami per i conti pubblici, che senza un imprevedibile ed improbabile aumento della produttività non potrà che mandarci in default. Non ci sono dubbi quindi che abbiamo bisogno di più immigrati.
Una parte della professione economica però rivela una preferenza ideologica per un approccio pro-immigrazione che non a caso lascia molto diffidenti gli elettori. Esistono due effetti importanti da prendere in considerazione: quelli sul Pil e quelli sulle finanze pubbliche. Gli effetti sul PIL di un immigrato regolare sono certamente positivi, ma per i conti pubblici esistono molti dubbi. Un welfare non più generoso, ma comunque molto costoso come quello italiano necessita di imposte corrispondenti. È molto dubbio che chi guadagna 10 o 15mila euro al mese contribuisca effettivamente ai servizi pubblici in maniera sufficiente a coprire la spesa pubblica che consuma. E per ottime ragioni, La finanza pubblica infatti redistribuisce ampiamente risorse dai più ai meno abbienti. Se funziona bene, necessariamente gli immigrati che si concentrano nelle classi di reddito basse, quando lavorano regolarmente, godono di una ampia redistribuzione di risorse. Peraltro, negli ultimi anni c’è stata una continua ricerca di metodi per far pagare sempre meno tutte le imposte ai meno abbienti, dagli sconti o le restituzioni di importi monetari solo sotto varie soglie di reddito, fino alle decontribuzioni (sempre con soglie) oppure bonus vari su energia ed affini. In queste condizioni è davvero improbabile che ci sia un effetto positivo degli immigrati sui conti pubblici.
Uno studio pubblicato su lavoce.it (Lavoratori immigrati, un contributo positivo per Pil e finanze pubbliche), un meritorio sito di informazione di economisti, invece riporta un effetto positivo di circa 1,8 miliardi di euro l’anno. L’aspetto che convince poco però è che il surplus emerge solo dalla previdenza. Gli immigrati infatti pagano 25 miliardi di contributi a fronte di una spesa per pensioni e altre prestazioni sociali di meno di 18. Sette miliardi di surplus che però tra qualche anno dovremo restituire ai lavoratori che li versano, probabilmente aumentati, dato il carattere progressivo anche del sistema pensionistico. Non è sorprendente che il sistema paghi meno pensioni oggi, visto che c’erano molti meno immigrati ieri, ma i versamenti odierni precostituiscono un debito domani. Un debito maggiore dei contributi stessi in termini reali, perché si tratterà di integrazioni di pensioni basse, probabilmente integrate. Se guardassimo alle sole poste che non generano debito futuro in realtà sarebbe certo che nel medio termine c’è un deficit pubblico non irrilevante associato alla presenza di immigrati, uno squilibrio ancor maggiore al sud dove i redditi degli immigrati (e le imposte sono ancora minori).
La verità l’ha raccontata un lungo articolo dell’Economist di alcune settimane fa. Le nazioni sviluppate stanno attivamente competendo per attrarre talenti e persone con competenze e titoli di studio dai paesi meno sviluppati, perché solo chi guadagna redditi oltre certe soglie in realtà fornisce un contributo positivo alle finanze pubbliche, ad anche alla crescita economica. Questa è la ragione per cui una ragionevole e urgente politica dell’immigrazione dovrebbe concentrarsi, oltre che sull’aumento dei flussi regolari, sulla costruzione di relazioni con università e istituzioni formative dei paesi in via di sviluppo, sulla certificazione della qualità dei titoli di studio e la coltivazione dei talenti. Per costruire una composizione della popolazione immigrata economicamente un po' più simile a quella degli italiani. L’Economist riporta peraltro che l’Italia sarebbe una delle mete ambite per un consistente numero di laureati. Le potenzialità di questa politica sono enormi per un governo non ossessionato dalle ideologie e concentrato sui nostri interessi di lungo periodo.
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