Transizione energetica: il ruolo dei sindacati alla partita del Green Deal
Intervista ad Angelo Colombini di Andrea Ballocchi - Infobuildenergia
Nella partita della transizione energetica i sindacati vogliono esserci e dare il loro contributo. Il segnale forte e chiaro al Governo lo inviano CGIL CISL e UIL in un documento condiviso denominato “Piattaforma per la giusta transizione” in cui la parola transizione compare ben 19 volte nelle 6 pagine.
Per garantire il passaggio verso un nuovo modello di sviluppo sostenibile, sono necessari ed urgenti piani, misure e risorse specifici per la Giusta Transizione.
“CGIL, CISL e UIL rivendicano un piano di Giusta Transizione per la trasformazione del modello economico e produttivo e per affrontare in modo coordinato a livello nazionale tutte le situazioni di crisi che si apriranno in conseguenza del phase out dal carbone e della riconversione verde di tutti i settori economici, da quelli industriali altamente energivori, all’automotive, al settore energetico, all’agricoltura e in altri settori”.
Ma chiedono anche misure per creare nuovi posti di lavoro, attivare ammortizzatori sociali universali, avviare percorsi di formazione permanente e di riqualificazione professionale per accrescere le competenze verdi e digitali e ricollocare i lavoratori.
Fanno diverse proposte al Governo, in tema di: mitigazione e adattamento al cambiamento climatico; uso sostenibile e protezione delle risorse idriche e marine; transizione verso l’economia circolare; prevenzione e controllo dell’inquinamento; protezione e ripristino della biodiversità e degli ecosistemi.
Soprattutto ritengono essenziale che sia garantito un processo partecipativo e contrattuale, con un ampio coinvolgimento a partire dalle Parti Sociali.
«Come sindacato, il nostro compito è aiutare lavoratori e cittadini a comprendere l’importanza della transizione energetica e il cambiamento che comporta, anche culturale e di vita», afferma Angelo Colombini, segretario confederale CISL – Confederazione Italiana Sindacale Lavoratori, che quest’anno ha compiuto 70 anni di storia e che conta più di 4 milioni di tesserati.
Ed è proprio con il Responsabile confederale alle politiche dell’energia e ambiente che cerchiamo di comprendere l’azione del sindacato in questo percorso e quali saranno le azioni concrete da attuare.
La transizione energetica implica un cambiamento. Cosa comporta in pratica?
«Comporta la necessità di preparare le basi perché si agevolino le persone che lavorano nei settori interessati al cambiamento. Muteranno anche le logiche dell’occupazione, diretta e indiretta, e quindi dovremo anche aiutare i lavoratori di tutta la filiera produttiva ad una riqualificazione delle competenze personali.
La politica non tiene conto di questo, sottovalutando la complessità o riducendo la questione a pensionamenti anticipati o alla possibilità di accedere a forme di assistenzialismo come il reddito di cittadinanza. Invece deve farlo e il sindacato deve essere il primo attore di questa riqualificazione. La transizione energetica implica anche una modernizzazione tecnologica degli impianti in termini di efficienza di produzione energetica che, d’altro canto comporta un minor contributo da parte del personale direttamente e indirettamente coinvolto».
La transizione energetica che conseguenze ha a livello occupazionale e in termini di riqualificazione dei settori legati ai combustibili fossili?
«Significa, in cifre, che se oggi sono coinvolti direttamente 100 lavoratori nella centrale di carbone che produce energia elettrica ed altri 200 indirettamente nella filiera, al momento della chiusura, nella nuova centrale saranno impiegate circa 40 persone e indirettamente ne verranno coinvolte la metà di quelle impiegate attualmente.
Questo perché si attende un ridimensionamento dovuto alla modernizzazione tecnologica dei nuovi impianti. Come si può comprendere, una parte di queste persone sarà accompagnata al pensionamento, ma la maggior parte dovrà essere riqualificata e ricollocata anche in altre aziende, per questo servono nuove politiche attive del lavoro. Su quest’ultimo punto dovremmo verificare gli effetti di nuove opportunità occupazionali come, ad esempio, i programmi di potenziamento dell’efficienza energetica, che riguarderanno le infrastrutture edili, l’impiantistica termica ed idraulica, l’industria automobilistica e l’automotive; studi previsionali delle associazioni di categoria ipotizzano tra i 120/130 mila posti di lavoro nuovi, soprattutto nella piccola e media impresa e nell’artigianato».
Oltre alla necessità di riqualificare i lavoratori, quali altri riflessi comporta la transizione energetica e come vede coinvolti i sindacati?
«Un altro aspetto è altrettanto importante: la questione educativa e formativa. Passando da vecchie a nuove fonti energetiche, serve formare le giovani generazioni in prospettiva futura. Penso, per esempio, all’azione della scuola e dell’università verso le tematiche della green economy.
Col Recovery Plan verranno investiti 74 miliardi di euro sulla transizione verde, ovvero il 37% dei 209 miliardi destinati all’Italia. Ma la scuola come si attrezzerà sulle nuove competenze dei ragazzi? Questo è un tema importante su cui riflettere e agire. In CISL abbiamo avviato percorsi formativi sul tema, dedicati in primis ai nostri dirigenti sindacali e delegati affinché possano sviluppare la coscienza del cambiamento e al contempo acquisire le competenze necessarie per interloquire in modo proattivo con la controparte imprenditoriale e con le Istituzioni centrali e regionali in una gestione condivisa di tutto il processo. Noi rappresentanti CISL siamo una realtà con precise responsabilità nei confronti dei lavoratori, consapevoli che le trasformazioni e i cambiamenti avvengono innanzitutto nei luoghi di lavoro. A partire dalle fonti rinnovabili fino alla mobilità elettrica, tutto questo comporta un nuovo modo di lavorare, nuove competenze».
CGIL, CISL e UIL chiedono l’apertura di un confronto con il Governo per l’utilizzo dei fondi relativamente alla transizione ecologica, da articolarsi sia in investimenti diretti sia sotto forma di strumenti finanziari, sussidi o altre forme di incentivo. Cosa chiederete nello specifico in tale confronto?
«Innanzitutto, chiederemo che il Governo impieghi i fondi del Recovery Plan sul Green coinvolgendo anche il sindacato e non pensando di definire gli aspetti della trasformazione solo seguendo la governance di grandi esperti del settore. Dall’altro lato, questo coinvolgimento deve comprendere le parti sociali, non solo quindi i sindacati, ma anche associazioni rappresentative come Confindustria, quelle delle PMI e degli artigiani. Questo perché i fondi europei verranno utilizzati in primo luogo negli ambienti lavorativi e quindi le parti sociali devono avere parte attiva, visto che saranno poi loro a gestire fattivamente le ricadute di tali investimenti. Non si può pensare ai sindacati solo per gestire gli esuberi e gli ammortizzatori sociali. Ci interessa altrettanto tracciare progetti insieme all’Esecutivo, al Parlamento e alle imprese. Solo per fare un esempio: il sistema degli approvvigionamenti della P.A. terrà in considerazione la necessità di acquisti “verdi”, così come già richiesto ai vari ministeri di applicare il Green Public Procurement con le relative normative che ancora oggi stentano ad essere attuate? Discorso analogo vale anche per le future infrastrutture.
La tecnologia dell’idrogeno verde è un’altra opportunità che deve essere sviluppata sempre più e che consegue passaggi intermedi (come l’idrogeno blu prodotto dal gas naturale ma con impianti di acquisizione e stoccaggio della CO2) e delle relative implicazioni infrastrutturali, tecnologiche e occupazionali. Alla potenzialità dell’idrogeno nelle forme di produzione sostenibile (verde e blu come sopraindicato), si dovrà investire anche su progetti di bioeconomia, a partire dall’implementazione di infrastrutture dedicate alle produzioni energetiche provenienti dalla filiera agricola/zootecnica (biogas/biometano), dal riciclo dei rifiuti o degli scarti alimentari attraverso trasformazione di alcuni impianti di raffinazione, oltre quelli già realizzati da ENI a Marghera e Gela, o riconversione di impianti industriali oggi dedicati a produzioni ambientalmente invasive».
La Commissione Europea ha evidenziato in tutte le iniziative legate al Green Deal europeo la necessità di un ampio coinvolgimento delle rappresentanze sociali prima della loro attuazione. Ma in Italia – ha rimarcato lei di recente – questo non accade. Come mai?
«Partiamo dal fatto che il ministro dell’Ambiente Sergio Costa in due anni e mezzo di mandato, ad eccezione di un’occasione, non ha mai convocato il sindacato. La tendenza ad eludere il confronto diretto delinea una concezione del rapporto sociale decisamente singolare, eppure la Commissione UE ha stabilito, tra le condizioni per lo stanziamento dei fondi, il coinvolgimento delle parti sociali. Ad oggi, purtroppo non c’è stato un cambiamento in tal senso».
Ma è un atteggiamento solo del ministro o in generale di questo Governo? E come se lo spiega?
«Nel passato ci sono state difficoltà, ma con questo Governo e con quelli immediatamente precedenti sono aumentate le criticità al dialogo. Tale atteggiamento me lo spiego come la manifestazione di una volontà di interlocuzione diretta con i cittadini senza passare dai corpi intermedi. Invece è importante stabilire un dialogo, fatto salvo che al termine del percorso (che comprende tutta la fase che dalla progettazione giunge alla concretizzazione del progetto) sarà l’Esecutivo – come è giusto che sia – a prendere le decisioni e ad assumersene le responsabilità.
Ricordo solo che CGIL, CISL e UIL rappresentano 11 milioni di aderenti. Pur con tutto il rispetto, sono un numero decisamente maggiore rispetto ai circa 187mila iscritti alla Piattaforma Rousseau “democrazia partecipata”.
Non è che il sindacato viene considerato un ostacolo, un “signor no” alla possibilità di cambiamento?
Una volta, forse, poteva essere considerato così. Resta il fatto che un esecutivo responsabile, un Parlamento avveduto dovrebbe tenere conto del parere delle parti sociali, che sono l’espressione della società. Il problema, temo, è che il Governo ha poca competenza ed esperienza da porre al tavolo di confronto ed è per questo che evita il dialogo.
Si potrebbe inoltre cogliere questa occasione per rilanciare una nuova idea di democrazia economica, che veda anche i rappresentanti dei lavoratori partecipare alle scelte aziendali con la presenza negli organi decisionali delle imprese e dare un messaggio chiaro di coinvolgimento del mondo del lavoro al rilancio del Paese nei programmi post pandemia».
Il 2021 come vi vedrà impegnati sul fronte della transizione energetica ed ecologica?
Innanzitutto cercheremo di portare a conoscenza dei lavoratori, dei corpi intermedi, della politica e del Governo questo documento congiunto di CGIL, CISL e UIL che consideriamo – come esplicitato dal titolo – una piattaforma, in quanto si compone di una serie di richieste precise. In secondo luogo, questo confronto deve diventare anche occasione e strumento di conoscenza e di sensibilizzazione dei lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro, dove avverrà la trasformazione, come pure nelle scuole e sul territorio. Occorre lavorare sull’aspetto educativo, fin dalle giovani generazioni perché la transizione coinvolge anche loro e li vedrà protagonisti nel prossimo futuro. Sviluppare la sensibilità dei giovanissimi è un’opportunità per radicare il cambiamento e farlo diventare occasione di una partecipazione attiva.
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