Le strategie economiche dell'Europa tra Cina e Usa
Amedeo Lepore - Il Mattino
L’economia mondiale presenta ancora molti pericoli, come ha titolato The Economist: il calo dell’inflazione è una buona notizia, ma è presto per pronosticare un “atterraggio morbido” dopo le turbolenze dell’ultima fase.
Uno degli aspetti cruciali della transizione economica e del riassetto degli equilibri geo-politici è rappresentato dal disaccoppiamento tra Cina e Stati Uniti e dal ruolo che l’Europa può svolgere in questo contesto.
L’economia cinese, nel secondo trimestre del 2023, è cresciuta di appena lo 0,8% in confronto ai tre mesi precedenti.
La disoccupazione giovanile ha raggiunto il livello record del 21,3% e il valore in dollari delle esportazioni è sceso di oltre il 12% rispetto al 2022.
Gli USA, al contrario, hanno registrato un notevole miglioramento nel primo semestre, anche se le previsioni propendono per un rallentamento dell’economia.
Per varie ragioni – gli effetti di un’inflazione più contenuta ma “ostinata”, l’andamento incerto del mercato del lavoro, la divergenza tra le grandi economie – può complicarsi il cammino per ripristinare condizioni di maggiore equilibrio finanziario e avviare una ripresa duratura dei processi di sviluppo.
Del resto, la Cina potrebbe subire una decelerazione strutturale della crescita, con un’economia gravata da crediti inesigibili, come accadde in Giappone nei primi anni ‘90, e una deflazione insistente, in sostanziale controtendenza con buona parte del mondo. In un documento su “Cosa significa per l’Europa ridurre i rischi dalla Cina”, pubblicato dall’Economist Intelligence Unit (EIU), si esamina come l’obiettivo di de-risking sia diventato uno dei cardini della strategia europea.
In questo modo, la UE ha abbandonato le posizioni di pochi anni fa, quando intendeva consolidare i rapporti economici e alimentare gli investimenti nel Paese asiatico, e alcuni membri dell’Unione (inclusa l’Italia), allora pronti a dialogare sulla Belt and Road Initiative, hanno preso le distanze da quel progetto.
L’Unione Europea ha esplicitato la sua “nuova dottrina”, come ha ricordato Louis de Catheu su Le Grand Continent, con il discorso tenuto da Ursula von der Leyen pochi mesi fa a due istituti (Mercator Institute of China Studies ed European Policy Centre), in cui ha evidenziato che la Cina rimane un “rivale strategico”, dato che “negli ultimi anni le nostre relazioni sono diventate più distanti e difficili” e che il suo scopo è “un cambiamento sistemico dell’ordine internazionale”.
Ma questa rivalità deve provare a coesistere con i partenariati, rafforzando le interdipendenze economiche globali e mantenendo “linee di comunicazione aperte” con quel Paese. La Cina, per la presidente della Commissione Europea, “sta diventando più repressiva all’interno e più dura all’estero”, inserendo tra le sue priorità politiche la sicurezza e il controllo, a scapito dell’apertura del commercio e dello sviluppo dell’economia.
Il tentativo di essere meno vincolata al resto del mondo si affianca al proposito di accentuare la dipendenza delle filiere produttive internazionali dal mercato cinese, in particolare “per le materie prime critiche come il litio o il cobalto, per settori come l’alta velocità ferroviaria e la tecnologia delle energie rinnovabili, o per le tecnologie emergenti, come l’informatica quantistica, la robotica o l’intelligenza artificiale”.
Per questi motivi, l’Europa deve concentrarsi sulla limitazione dei rischi, cogliendo le possibili convergenze determinate da sfide ambientali e interessi economici generali, ma anche costruendo una maggiore resilienza delle catene di approvvigionamento e differenziando sempre più le reti commerciali.
Secondo l’EIU, aumenterà la diversificazione dei rifornimenti di materie prime, in assenza di traumi significativi nel breve e medio termine. Mentre è probabile che si intensifichino le relazioni transatlantiche e le relative scelte politiche verso la Cina, tema centrale dell’incontro tra Biden e Meloni, paventando la persistenza della concorrenza sleale, della violazione dei diritti umani, del sodalizio con la Russia e del pericolo di attacchi a Taiwan, senza escludere eventuali ritorsioni cinesi.
In questo quadro di inquietudine, tuttavia, i rapporti economici tra UE e Cina restano forti, visto che quest’ultima è un fondamentale partner commerciale, con il 9% delle esportazioni di merci europee e più del 20% di importazioni.
Gli investimenti cinesi sono diminuiti per l’introduzione di nuove regole di controllo dell’Unione nel 2020, mentre quelli europei nel Paese asiatico sono aumentati di oltre il 90% lo scorso anno.
L’Europa, poi, riceve dalla Cina il 98% della provvista di terre rare, il 93% del magnesio e il 97% del litio. Il de-risking, quindi, richiede un’accelerazione di forniture alternative, soprattutto nei settori critici, evitando, però, una completa rottura dei legami commerciali tra Unione Europea e Cina, che comporterebbe, a parere della BCE, una diminuzione di oltre il 2% della spesa nazionale lorda nell’eurozona.
La strategia europea indica una stretta connessione tra rischi economici e rischi per la sicurezza, puntando all’attenuazione dei pericoli per gli approvvigionamenti, le infrastrutture e le tecnologie digitali, quali fattori decisivi per la crescita.
Una prospettiva di riduzione dei rischi esige più di un decennio per realizzarsi, scontando, nel frattempo, un’oscillazione meno rilevante per il commercio di quanto accadrà, invece, per gli investimenti.
Infine, l’Europa continuerà a impegnarsi con la Cina in aree di reciproco interesse, come il cambiamento climatico, ma solo con specifiche intese. Da questo contesto emerge che un blocco delle relazioni economiche internazionali è dannoso per tutti, ma anche che i vecchi assetti geo-politici – e le fughe in avanti, come gli accordi sulla “Via della seta” – non reggono più.
L’unica strada percorribile è quella in salita di un nuovo ordine internazionale, da costruire realisticamente sulla base di un modello inedito di sviluppo globale.
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