Chi non teme l'intelligenza artificiale
Amedeo Lepore - Il Mattino
Quando, nei giorni scorsi, il commentatore economico del Financial Times Martin Sandbu ha espresso un’opinione in controtendenza sull’evoluzione delle tecnologie e sulle dirompenti innovazioni dell’intelligenza artificiale (IA), si è respirata a pieni polmoni un’aria nuova.
Come egli stesso documenta, il conformismo su questo tema sta diventando di massa e coinvolge anche autorevoli personalità, mentre occorrerebbe un maggiore sforzo di comprensione dei fenomeni complessi che presenta il mondo attuale.
Sulla scia della più popolare tra le tipologie di apprendimento automatico e generazione di testi – sospesa e riattivata, in Italia, sulla base di un dibattito per molti versi onirico – è scattato un forte allarme, che ha fatto leva su argomentazioni di disparata natura.
Contemporaneamente, in due sole settimane, si è assistito al lancio di una serie di nuovi dispositivi di IA, tra i quali GPT-4, Bard, Claude, Midjourney V5 e Security Copilot, che contribuiscono a introdurre sempre più consistenti e inaspettate novità.
Tra coloro i quali hanno mostrato seria preoccupazione c’è Ian Hogarth, un grande investitore in nuove imprese dell’intelligenza artificiale, che ha paventato l’esistenza di “rischi significativi per il futuro della razza umana”, poiché “la competizione tra poche aziende per creare una IA simile a Dio ha subìto una rapida accelerazione”.
D’altro canto, Geoffrey Hinton, uno tra i ricercatori più prestigiosi nel campo del deep learning, ha abbandonato il suo ruolo in Google per testimoniare la sua inquietudine per le varie forme di “chatbot”, che possono battere l’uomo nella quantità di conoscenza posseduta, se non ancora nella capacità di ragionamento. Gary Marcus, scienziato cognitivo e imprenditore innovativo, ha manifestato timore per l’uso che cattivi protagonisti possono fare di queste tecnologie.
Un altro pioniere delle reti neurali artificiali, Yoshua Bengio, è arrivato a sostenere che il processo in corso può perfino “destabilizzare la democrazia”. Inoltre, Daniel Dennett, filosofo e studioso della mente, ha affermato che la capacità della IA di creare “persone digitali contraffatte” mette a repentaglio la nostra civiltà.
L’economista Robert Skidelsky, indicando i segni di una distopia tecnologica, ritiene che la “frenesia generativa dell’IA” prefiguri una bolla speculativa simile a quelle dei tulipani olandesi del Seicento o dei Mari del Sud del Settecento. Il Future of Life Institute, infine, ha pubblicato una richiesta di moratoria sullo sviluppo di questi sistemi.
Sandbu, replicando alle osservazioni degli esperti, ha suffragato l’idea secondo cui l’IA sconvolgerà la vita umana e l’assetto economico attuale, ma non necessariamente in termini negativi, rilevando, peraltro, la difficoltà di percepire “come anche gli scenari peggiori siano qualitativamente diversi dai grandi problemi che l’umanità è già riuscita a causare”.
Verrebbe da dire che l’uomo può rappresentare un pericolo per sé stesso maggiore persino delle macchine. Yuval Noah Harari, in un articolo su The Economist, ha ribadito che gli strumenti dell’intelligenza artificiale sorti negli ultimi due anni “minacciano la sopravvivenza della civiltà umana”, a causa della loro capacità di generare linguaggio.
Secondo lo storico dell’Università di Gerusalemme, il fronte dell’invadenza delle tecnologie si sta spostando dal tentativo di dominare l’attenzione umana a quello di produrre relazioni confidenziali, condizionando la nostra concezione del mondo e facendo diventare l’intelligenza artificiale un oracolo.
Per la verità, basta rileggere un classico come I persuasori occulti di Vance Packard del 1957 per constatare un analogo turbamento legato alla pubblicità e alla televisione, che allora apparivano come mezzi molto temibili.
Perciò, pensare di trovarsi alla “fine della storia umana” e domandarsi che cosa avverrà “quando l’IA prenderà il sopravvento sulla cultura e comincerà a produrre storie, melodie, leggi e religioni”, come fa Harari, rischia di dare spazio a scenari apocalittici o a principi esasperati di vincolismo, lontani dall’essenza stessa delle sue analisi visionarie.
In fondo, tutte queste angosce denotano una “cronofobia”, che non è solo il sintomo di una società che invecchia e non è capace di trasformarsi, ma scaturisce da una profonda incertezza per il futuro. L’Unione Europea e gli Stati Uniti stanno legiferando separatamente sulla materia, mentre sarebbe auspicabile un quadro di regole condivise.
Al tempo stesso, i decisori pubblici sono chiamati a valutare gli effetti distributivi degli aumenti di produttività recati dall’intelligenza artificiale, che dipenderanno dalla prevalenza di un controllo oligopolistico di queste innovazioni o di modalità di accesso aperto al loro utilizzo con l’obiettivo di una competizione virtuosa.
In realtà, secondo il Rettore della IE University Manuel Muñiz e il Presidente della Observer Research Foundation Samir Saran, “l’arrivo improvviso di strumenti di intelligenza artificiale rivoluzionari ha creato un’urgente necessità di un approccio più olistico e globale alla governance tecnologica”.
Questo è il significato fondamentale di un mondo che non intende essere sopraffatto dagli aspetti sfavorevoli di questa rivoluzione, circoscrivendoli e superandoli come nelle esperienze del passato, ma vuole comprenderne tutte le potenzialità di progresso per l’uomo e cogliere interamente le occasioni per l’avvio di una nuova età dell’oro per lo sviluppo.
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