Intelligenza artificiale, la rivoluzione da gestire per spingere la crescita
Amedeo Lepore - Il Mattino
Se dovessimo indicare l’aspetto del cambiamento di paradigma globale che è prevalso nel 2024 e che presenta un futuro gravido di incertezze, non avremmo dubbi. Come non ne aveva uno scienziato di culto quale Stephen Hawking.
Nel suo ultimo scritto, però, ha affermato che l’intelligenza artificiale, capace di generare una propria volontà in conflitto con la nostra, rappresenta uno dei pericoli principali per la sopravvivenza della civiltà umana. I premi Nobel per l’economia Daron Acemoglu e Simon Johnson, nel volume Potere e progresso, più che mostrare allarme per un nuovo tipo di super robots, hanno evidenziato gli squilibri sociali e politici derivanti dalle modalità di regolamentazione e dai processi di integrazione dell’IA. Inoltre, pur apprezzando i vantaggi di un’innovazione rivoluzionaria, hanno rilevato che non saranno necessariamente distribuiti in modo equo, a causa del potere eccessivo esercitato dalle aziende che creano e potenziano queste tecnologie. Un assillo tanto più forte ora che Elon Musk con xAI ha deciso di convogliare in questo settore le sue attività, con una concentrazione di interessi strategici, mentre Apple Intelligence e Google DeepMind hanno raccolto la sfida di una svolta di fondo nell’industria tecnologica. In questo contesto, Acemoglu ha sottolineato l’esigenza che istituzioni “inclusive” e cittadini abbiano voce in capitolo nelle scelte dell’IA, per condividerne estesamente costi e benefici. In un articolo su Project Syndicate, l’economista del MIT, pur considerando l’eventualità di un predominio dei modelli di intelligenza artificiale superintelligenti, ha sostenuto la mancanza di certezze sui “vantaggi rivoluzionari in termini di produttività” delle nuove tecnologie e sul tramonto del lavoro umano, che potrà essere sostituito dalle macchine solo per il 5% nel prossimo decennio. Per Acemoglu, occorrerà molto più tempo perché l’IA possa acquisire il discernimento, la logica multidimensionale e le conoscenze sociali indispensabili per la gran parte dei lavori e perché i robot riescano ad assolvere mansioni ad alta precisione. Nondimeno, se l’intelligenza artificiale dovesse limitarsi all’automazione, sarebbe inevitabile il subentro ai compiti dell’uomo. Al contrario, se venisse impiegata per alimentare le competenze dei lavoratori, accrescerebbe la domanda dei loro servizi e, cioè, l’occupazione e i guadagni.
Tuttavia, vi sono tre ostacoli al conseguimento di questo obiettivo. L’eccesso di affidamento nella “intelligenza artificiale generale”, che può favorire tecnologie digitali orientate a rimpiazzare la forza lavoro, anziché espandere e completare le facoltà dell’uomo. La sottovalutazione degli investimenti in formazione, che rendono l’IA un mezzo di emancipazione umana. La carenza di modelli di impresa volti a investimenti innovativi, sottratti al dominio dell’automazione voluto dai giganti delle Big Tech. Per superare queste barriere, serve l’adozione da parte dei decisori politici di un “programma pro-umano” per l’intelligenza artificiale, che “possa mantenere la sua promessa come tecnologia dell’informazione”. Michael Spence, altro premio Nobel per l’economia, durante un convegno di Luiss e Sapienza ha osservato che l’impatto dell’IA non si può ancora valutare, data la sua fase iniziale di sviluppo, ammonendo i governi sulla necessità di non concentrarsi solo sulla prevenzione dei rischi, ma di puntare a mete più ambiziose, legate all’allentamento dei vincoli dal lato dell’offerta che hanno frenato la crescita degli ultimi anni. In un articolo su Finance & Development, a differenza di Acemoglu, ha avanzato l’ipotesi di una ricaduta significativa delle nuove tecnologie sulla produttività del lavoro entro la fine di questo decennio. Per Spence sono in corso ben tre “trasformazioni rivoluzionarie”, sorrette da cospicui investimenti: l’innovazione digitale, di origine pluridecennale, spinta dai mutamenti dell’IA; la rivoluzione nelle scienze biomediche e della vita; la modernizzazione tecnologica dell’energia sostenibile.
Questi formidabili progressi comporteranno cambiamenti strutturali nelle economie mondiali, attuando una collaborazione incrementale tra la macchina e l’uomo, piuttosto che un’automazione completa, definita da Erik Brynjolfsson come “la trappola di Turing” per i suoi effetti drastici sull’occupazione. L’intelligenza artificiale sta entrando in una “terza fase” di sviluppo, basata sull’industrializzazione, passando dalla realizzazione di prototipi generici alla diffusione di applicazioni concrete per tutti i settori produttivi e le aziende di ogni dimensione, anche in grandi comparti attualmente in ritardo (pubblica amministrazione, assistenza sanitaria, commercio, edilizia e ospitalità). Secondo Sepp Hochreiter dell’Università Johannes Kepler di Linz, questa transizione rappresenta un’occasione irripetibile per l’Europa per colmare il gap tra ricerca universitaria e processi di trasformazione industriale, attivando pienamente l’iniziativa pubblica e privata. Il nostro continente rischia, infatti, di rimanere ai margini delle profonde metamorfosi determinate dall’IA negli Stati Uniti e in Cina, per lo scarso finanziamento della ricerca di base, la lentezza dell’applicazione della potenza di calcolo all’investigazione scientifica e l’incapacità di sfruttare appieno la vasta scala dell’economia europea. Perciò, hanno ragione James Manyika e Michael Spence a sollecitare non solo strategie più audaci per la promozione di “tecnologie che aumentino le capacità umane” anziché sostituirle, ma anche “una nuova mentalità nei confronti dell’intelligenza artificiale”. In questo modo, l’inedita rivoluzione tecnologica in atto può accelerare la ripresa della competitività e la crescita economica europea.
Seguici sui social