05 luglio 2021   Articoli

Sarebbe un errore snaturare Napoli

Sebastiano Maffettone - Corriere del Mezzogiorno

Maffettone Sebastiano - Filosofo e professore - Università LUISS

Nel film “Il fascino discreto della borghesia” di Bunuel i protagonisti non portano sistematicamente a compimento i loro riti alimentari. Lo stesso potrebbe dirsi per i tentativi di riforma e radicale cambiamento che riguardano Napoli. Questi tentativi, peraltro generosi e in qualche modo inevitabili, finiscono infatti per essere troppo spesso vuoti come i riti alimentari della borghesia di Bunuel. Il dubbio che volevo sottoporre all’attenzione dei lettori verte sull’opportunità di proporre riforme e cambiamenti radicali in un posto come Napoli. Mi sono portato appresso per tutta la vita un’immagine di Napoli che somiglia a quella di chi patisce gli effetti di una lunga malattia.

Le riforme e i radicali cambiamenti -sempre enunciati mai realizzati in maniera compiuta- altro non erano da questo punto di vista che la terapia di un male la cui diagnosi si dava per scontata: Napoli soffriva di una depressione cronica strisciante. Proprio questa depressione, cui dedicai parte di una ricerca da me diretta per la Fondazione Agnelli, impedirebbe la progettualità, renderebbe opaco il futuro, spiegherebbe l’incapacità competitiva. Depressione, non a caso, è termine che si adopera sia in economia che in psicologia, e nulla vieta che il combinato disposto dei due differenti significati possa dare quantomeno un suggerimento su quella malaise che io -e molti di noi- davo per scontata. Ma, come dicevo, dubbi sono arrivati per una certezza -quella di una malattia sociale da curare- che forse bisognava avere il coraggio di mettere in discussione. Questi dubbi dipendono da due tipi di considerazioni, tra loro affatto diverse ma cumulabili, che riguardano la psicologia diffusa e l’avvento dell’era digitale.

Depressione si dice in molti modi. Parimenti, l’aspetto terapeutico corrisponde ai diversi modi in cui la si concepisce. La diagnosi può essere, per fare un esempio, basata sulla chimica. In questo caso, la carenza di alcune sostanze sarebbe la causa primaria della depressione. E il malaise che ne deriva dovrebbe essere curata attraverso la somministrazione sistematica di farmaci in grado di supplire gradualmente al deficit chimico di cui sopra. Naturalmente, stiamo parlando di una rozza ipotesi euristica che riguarda forse l’individuo ma non di certo la società. Ma la radicalità dell’ipotesi clinica richiede pari radicalità per l’economia. Da qui, le richieste di riforme e cambiamenti radicali. Forse, però, ci si può orientare in maniera diversa, partendo da diagnosi e terapia. La psicologia del profondo ci può invitare a convivere con le nostre carenze. A prenderle sul serio, ma senza cancellarle. Piuttosto, cercando le basi per una coesistenza avvertita. Il che, tradotto in economia in ambito non individuale ma sociale, vorrebbe dire non riforme e cambiamenti radicali ma invece una rilettura critica delle proprie caratteristiche principali. Il secondo tipo di dubbio viene da quello che ho chiamato l’avvento dell’era digitale. Sarò molto breve su questo punto anche perché se ne è parlato su questo giornale in occasione di un recente convegno sul Mezzogiorno organizzato da Merita e Fondazione Nitti. 

Il nuovo qui è rappresentato dal fatto che l’immaginario diventa progressivamente produttivo dal punto di vista economico. Nell’era digitale la fantasia e la creatività pagano. La brandizzazione dei prodotti e la centralità delle narrazioni sono le conseguenze pratiche di una rivoluzione ontologica imperniata sul digitale. Come è comprensibile, fantasia e creatività da sole non bastano, e occorrono istituzioni funzionanti -a cominciare dal sistema dell’istruzione- a fare da retroterra. Inutile sottolineare come a Napoli la fertilità dell’immaginario esista e sia apprezzata dal pubblico generale. Come del resto testimoniano le fiction televisive di maggiore impatto da “Un posto al sole” ai “Bastardi di Pizzofalcone”. E’ questo immaginario napoletano, dal sound alla lingua, dal teatro alla pizza, dal modo di vita alla grande bellezza del golfo, su cui si potrebbe fare leva per baipassare la depressione di cui si diceva. 

Troppa facile utopia? Può essere. Ma in fondo quanto ho scritto in questo articolo vuol essere più che altro espressione di una perplessità autocritica. Più di trenta anni fa, scrissi un pezzo che il giornale intitolò (se ricordo) “Dobbiamo diventare antipatici”. La tesi era che per uscire dai meandri dell’annosa questione meridionale, i napoletani dovevano snaturarsi, mutare pelle, cambiare carattere. Diventare simil-tedeschi e adottare una mentalità calvinista. Sto solo dicendo che qualcosa del genere non è solo impossibile. Ma anche sbagliato. Anche perché ci sono terapie psicologiche più indolori e tecnologie che rendo la nostra heritage economicamente più spendibile. 

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Politica

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