Se il Mezzogiorno è un problema nazionale
Sebastiano Maffettone - Sole 24 Ore
Il ritardo di sviluppo del Mezzogiorno d'Italia non dipende dal Covid-19, come tutti sappiamo. Ma il momento di riflessione, che si è aperto in questa fase di pandemia, può essere utile per pensare sia sulle cause di questo ritardo sia soprattutto sulle politiche che possano in un futuro non troppo lontano porvi rimedio.
Sotto questi auspici, senz'altro condivisibili, si apre il libro di autori vari curato da Giuseppe Coco e Claudio De Vincenti con il titolo a mio parere assai sensato di “Una questione nazionale”. La questione nazionale e poi quella meridionale, che dovrebbe diventare da «problema» tradizionale del Paese a «opportunità» di progresso.
Naturalmente, in casi del genere il problema principale consiste nel vedere come si possa raggiungere un obiettivo così desiderabile. La risposta che, su invito dei curatori, gli autori dei saggi forniscono riguarda sia l'analisi del fenomeno sia suggerimenti sul da farsi. Al centro delle analisi sta sempre la questione degli obsoleti rapporti sociali di produzione per dirla in marxese. L'analisi in questione parte, e non potrebbe essere diversamente, dalla valutazione critica delle spiegazioni classiche del ritardo del Mezzogiorno. La prima tra queste è quella -resa assai nota anche a livello internazionale per merito di Robert Putnam - basata sul deficit di capitale sociale che caratterizzerebbe le regioni meridionali.
Le ragioni storiche di questo deficit starebbero poi nella mancanza nel passato di una civiltà comunale al Sud d'Italia, cosa che rende tale spiegazione poco attuale e tutto sommato poco utile (non possiamo promuovere una civiltà comunale otto secoli dopo l'originale). Una seconda spiegazione insiste sulla capacità di classi sociali, di cui farebbero parte burocrati, professionisti e politici. C'è qui qualcosa di indubbiamente vero, ma è difficile capire perché ciò accada proprio nel Mezzogiorno e come porvi rimedio. Una terza spiegazione verte sulla mancanza di un network urbano nel Mezzogiorno. Anche in questo caso, dato per scontato un fatto del genere, non e però chiaro come mai le città del Mezzogiorno siano relativamente isolate. Isolamento che, come scrive Lepore, va comunque rivisto nel quadro della globalizzazione in torso. Infine, c'è di sicuro una spiegazione imperniata sulla insufficienza delle politiche per il Mezzogiorno. Da questo punto di vista, va anche ricordato che ci sono nuove prospettive legate alla centralità riconquistata dal Mediterraneo (si veda il capitolo di Coco).
Ora, senza dubbio è ragionevole criticare l'intervento politico nel Mezzogiorno complessivamente preso, ma è evidente ci sono stati anche atti politici positivi nel passato repubblicano come, tra gli altri, la Riforma agraria e l'intervento straordinario. Ciò, naturalmente, non vuol dire che ulteriori investimenti infrastrutturali non siano indispensabili ora (si vedano i capitoli di Mazzola, Borgomeo, Lagravinese e Resce).
Alla luce dell'analisi così concepita, si comprendono anche le direttrici della riforma. In linea di massima, si propone di favorire processi decisionali che riducano per quanto possibile I'intermediazione politica e di promuovere investimenti sostanziosi in capitale umano a cominciare da ricerca e istruzione (su cui Albert). Si citano tra gli altri, in questa ottica, come azioni virtuose i «Patti per il Sud» e «Resto al Sud», che furono lanciati nel periodo in cui uno dei due curatori del volume (De Vincenti) era ministro per il Mezzogiorno. In linea di massima, la caratteristica principale del libro consiste nel proporre politiche fortemente distanti dal mero reperimento di ulteriori risorse economiche o dalla riduzione dei salari al Sud e più inclini alla promozione di investimenti e al rafforzamento del capitale umano.
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