Paradisi fiscali: questione strategica, non tattica
Il commento di Giuseppe Coco
Nei giorni scorsi molti notisti politici ed economici si sono scagliati contro il governo olandese, reo di opporsi a forme di trasferimento di risorse a credito non condizionate a paesi ad alto debito, un eufemismo per definire principalmente l’Italia. Moltissimi hanno ricordato che l’Olanda può essere in effetti descritta come un paradiso fiscale interno alla UE. Di queste polemiche mi colpisce il timing e il fatto che sembrano dirette a ottenere vantaggi in termini di trattativa sul debito. Quasi che la questione fiscale fosse un fatto tattico secondario rispetto a quella dell’indebitamento libero.
In uno studio della stessa Commissione Europea del 2016 (poi ripreso da Oxfam) l’Olanda risultava in effetti prima in Europa per indicatori di comportamento fiscale aggressivo rispetto agli utili delle multinazionali. L’Olanda a differenza di altri paesi non ha una aliquota della imposta sulle società particolarmente bassa, ma sono finite sotto la lente in particolare due pratiche non proprio simpatiche, quella di offrire accordi poco trasparenti ad hoc che di fatto costituiscono eccezioni per attrarre, nominalmente, la sede legale di aziende che magari producono e vendono altrove (tax ruling); e la cd innovation box che consente di ottenere grossi sconti su redditi collegati a brevetti, il cui imponibile può essere spostato tra confini con molta facilità.
Lo stesso Rapporto stimava conservativamente a livello UE la perdita di entrate fiscali da pratiche elusive collegate alla competizione tra 160 e 190 miliardi di euro. C’è da scommettere che una fetta importante di queste perdite sono italiane.
Assieme all’Olanda, sotto ai riflettori c’era una prevedibile lista di piccoli paesi europei tra cui il Lussemburgo, Belgio, ma anche l’Irlanda. A contrastare con un approccio ad hoc la deriva degli accordi con le multinazionali è stata principalmente la tanto vituperata Commissaria Verstager che è impegnata in una incessante lotta contro la fiscalità di favore interpretata come aiuto di Stato. L’episodio più famoso ha condotto alla scoperta che Apple pagava un’aliquota dello 0,005 per cento sugli utili prodotti nella UE al fisco irlandese. Tuttavia questo approccio non consente di affrontare il problema se non in maniera indiretta.
Nel 2019 è entrata in vigore una Direttiva che rende il trasferimento di imponibile più difficile. L’anno scorso una proposta della Commissione che avrebbe obbligato a rendere pubblico il gettito fiscale di ogni singolo paese dalle grandi multinazionali è stata rigettata col voto contrario di molti paesi, ma non l’Olanda.
Va detto che la questione è complessa perché necessita di una discussione dei rischi di deflusso degli imponibili dall’Europa verso altri paradisi fiscali. Alcuni studiosi considerano addirittura sana questa competizione fiscale per limitare la voracità del fisco. Tuttavia il principale effetto per i grandi paesi sembra essere stato un trasferimento di gettito dalle imposte dirette alle imposte indirette, da chi ha i mezzi per ‘pianificare un minore gettito a chi non può, e un enorme trasferimento di ricchezza verso i paesi di piccole dimensione con pochi scrupoli.
Tornando alla polemica odierna, ciò che lascia stupiti sono i toni quasi strumentali della polemica. Quasi che la questione dei paradisi fiscali sia una questione tattica, mentre la possibilità di aumentare il debito sia strategica. Mi sembra che in questo caso si stia invertendo l’ordine dei nostri interessi strategici. Finora ci siamo sempre impegnati principalmente per ottenere la possibilità di indebitarci ulteriormente, magari a condizioni favorevoli.
Il nostro interesse primario è sempre stato invece quello di non perdere alcune decine di miliardi di gettito tributario. Forse con quel gettito oggi non avremmo la Sanità meno finanziata d’Europa. Più volte in questi giorni si è sentito invocare uno spirito nuovo nella Unione Europea. Questo è sicuramente un campo in cui non possiamo più permetterci di tornare alle vecchie abitudini.
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