Esplode lo smart working: necessità o opportunità?
Michele Cutolo - Roma
Cose mai udite. Una guerra mondiale. Un nemico invisibile. Nuove armi: stare a casa. Imperativi che hanno dominato dal 9 marzo fino al 27 aprile, data in cui si sono allentate le tenaglie… almeno parzialmente con effetti ancora da scoprire. L’ingegno di un Paese che come la Fenice risorge dalle sue ceneri mette in campo tutto il suo scibile. Resilienza, il sostantivo che ci contraddistingue.
Lo smart working, termine inglese che significa “lavoro agile”, da anni timidamente affacciato sui portoni dei nostri luoghi di lavoro, come una profezia mette piede negli uffici di tutta Italia. Anzi,entra a gamba tesa come farebbe uno dei più nerboruto dei calciatori a cogliere impreparata la difesa in piena area di attacco. Lavoratori e datori di lavoro di tutta Italia dalla sera all’indomani si sono dovuti reinventare processi aziendali per poter stare a casa in maniera più o meno proficua.
Lo smart working della necessità: una costrizione fatta di virtù per tenere su in alto frammenti di Pil e orgoglio nazionale. In quelle sere di paura, menti e braccia lavoravano insieme per far correre sui fili e senza fili informazioni aziendali e portare l’ufficio a casa dei lavoratori. Anche solo la mail, ma restate a casa! Documenti e pendrive come polli sottratti da portare a casa in tempo di guerra. Poi le connessioni, le prove tecniche, le prime lavorazioni online: la felicità abbraccia la paura in un momento buio, barlumi di vita normale, quella persa in pochi giorni.
Chiamate di pochi minuti ai colleghi in un momento così delicato diventano ore per scambio di informazioni e per rincuorarsi a vicenda: “Sai che qui fa paura? Si paventa un’altra zona rossa”. Riunioni informali al telefono. Chat per le info veloci ad ampio spettro. Splendide videochiamate di gruppo con capigliature improbabili “stile quarantena”. Mail per le comunicazioni più articolate, fatture e contratti per allegati. Firme elettroniche. Venti anni di tecnologia all’improvviso tornano tutti utili: anzi, sono necessari. Tra tragedia e faceto, questo è stato in sostanza l’introduzione di un placebo di smart working nella società attuale. Il lavoro agile della “necessità”.
Non eravamo preparati ma ci stiamo abituando. Dal punto di vista esterno si tratterebbe di un modo di erogare la prestazione lavorativa senza vincoli di tempo e di spazi, ovvero ove meglio il lavoratore ritenga e negli orari opportuni e più consoni alle sue esigenze personali e familiari. Ma il lavoro agile non è solo la fornitura di servizi e prestazioni a distanza servendosi di un massiccio supporto tecnologico. Il lavoro agile richiede che un’organizzazione ripensi i propri processi produttivi, di comunicazione, di monitoraggio e di controllo.
Un primo limite è che la lavorazione deve essere possibile al di fuori dei locali aziendali, in assenza di vincoli insuperabili allo stato attuale delle tecnologie. Quindi i processi vanno ripensati affinchè informazioni, documenti, materie e prodotti viaggino sui rispettivi network senza creare intralcio, in modo flessibile, efficiente, sicuro. Le fasi di lavoro, tipicamente sequenziali e supervisionate in loco, si spacchettano, diventano fluide. Come un pentagramma di note, quartine e terzine esse riacquistano forma solo se il direttore d’orchestra è capace di creare armonia. Il fattore umano qui diventa preponderante: coesione, organizzazione e team building a distanza sono una delle principali sfide dello smart manager.
Infatti, da un lato lo smart working implica il possesso di strumenti tecnologici, d’altro canto è pur vero che dietro a un pc, in un punto remoto di una città c’è una persona con tutte le sue caratteristiche proprie. È fondamentale, pertanto, che lo “smart worker” abbia un buon grado di autonomia lavorativa e una forte propensione al risultato. Il risultato, per essere valutato, può essere espresso come numero di lavorazioni laddove possibile, ma esso dovrebbe essere soprattutto inquadrato nell'obiettivo generale del raggiungimento dei fini aziendali.
Una giusta valutazione del risultato finale deve tener conto della complessità delle lavorazioni, del beneficio che una singola tipologia di lavorazione può portare sul risultato globale rispetto agli obiettivi primari, e del grado di innovazione che spesso, facendo leva su studio ed esperienza, porta notevoli vantaggi nella produzione. Il “caffè virtuale” non sarà lo stesso che di persona ma i benefici derivanti sono noti e molteplici: la riduzione o annullamento dei tempi per gli spostamento e la conseguente riduzione dello stress personale, dell’inquinamento cittadino e la possibilità di favorire una maggiore concentrazione del lavoratore rivolto al risultato.
In definitiva, per poter trasformare il lavoro agile da necessità ad opportunità, bisogna che esso assuma il suo stato più naturale, nutrendosi di sana organizzazione, frequente comunicazione e gratificazione personale.
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