I colori pastello di Procida per la Capitale della cultura
Maurizio De Giovanni - Corriere della Sera
Noi di Napoli lo sappiamo, com’è Procida.
Conosciamo che meravigliosa sensazione sia arrivarci, ovviamente dal mare, e osservare quell’arcobaleno color pastello di mura irregolari che brillano nel sole. Sappiamo che significa sbarcare, e annusare un’aria che sa di mare ma anche di alberi e di cucina, e ascoltare voci di pescatori e marinai, e incrociare sguardi e sorrisi. Noi lo sappiamo, com’è Procida.
E sappiamo quello che vuol dire inerpicarsi per quelle strade e quei vicoli, affrontando i dislivelli di un luogo che è meno isola di ogni altro, un paese di terra e cielo quanto di acqua e di azzurro, così caratteristico eppure così consueto: il motivo per cui, contrariamente ai luoghi dove imperano glamour e ricercatezza o insegne e menù disegnati in lingue straniere, uno si sente stranamente a casa fin dal primo momento, dal primo passo sulla terraferma. Noi lo sappiamo, com’è Procida. E sappiamo che più che altro, Procida è un’idea.
E siccome lo sappiamo, siamo felici come non si potrebbe di più di fronte alla notizia che quest’idea ha l’onore e l’onere di essere stata nominata capitale italiana della cultura per il 2022. A scorrere l’elenco delle avversarie in lizza c’è da rendersi conto immediatamente della difficoltà della competizione, di quanto sia stato complicato far valere le ragioni di quest’idea: città complesse e capoluoghi di provincia, come Ancona, Trapani, Taranto e Bari; luoghi di interesse archeologico primario, come Cerveteri; località dal contesto naturalistico bellissimo, come Pieve di Soligo e Verbania; e non si contano le importanti città che hanno partecipato alla selezione nelle fasi precedenti, tra cui la nostra Castellammare di Stabia, custode della memoria del grande Raffaele Viviani. Eppure a vincere è stata questa colorata, deliziosa idea in mezzo al mare. Da parte nostra e tra le molteplici espressioni culturali di questa straordinaria idea ci piace ricordare l’inimitabile Concetta Barra, dalla voce meravigliosa, e suo figlio Peppe, diamante splendido di una generazione fantastica di teatranti colti e creativi.
Le motivazioni della scelta sono molteplici e inducono a un legittimo, enorme orgoglio. E’ un tributo a una realtà, quella delle isole del Mediterraneo, che tanto porta alla complessità e quindi alla ricchezza di questo paese. Noi però riconosciamo in Procida un pezzo fondamentale di casa nostra, un’imprescindibile componente di una cultura identitaria che fa di noi quello che siamo.
Perché è adesso, proprio adesso, che l’onore si trasforma in onere: l’obbligo di prendere la bandiera, metterla in ordine e alzarla. Nessuno deve lasciare Procida sola, adesso: il compito è importante, ed è quello di far capire a tutti, e prima ancora a noi stessi, che la cultura dev’essere un’industria e deve dare da mangiare a tanta gente. Che l’ambiente è una risorsa e non va stuprato, che la memoria è tutt’altro che un peso, piuttosto un motore potentissimo. Che attraverso il cibo e il vino, i libri e il palcoscenico (di cui l’isola che non è un’isola ma un’idea è ricchissima) si trasmette la bellezza, e che avere la bellezza significa avere le carte per vincere qualsiasi partita. Tutti abbiamo l’obbligo di sostenere e proteggere questo luogo magico, costruendo una rete come quelle dei suoi pescatori e remando nella stessa direzione, come le sue barche. Per una volta dimenticando egoismi e limitati orizzonti controproducenti.
L’idea che afferma Procida, vincendo la sua competizione, è la solita: questa regione ha tutto quello che serve per trionfare, ma ha da battere il peggior nemico.
Se stessa.
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