I cento anni del PCI e l'oggi. Elaborare, non rimuovere
Claudio De Vincenti - Corriere del Mezzogiorno
Una grande storia, traversata da grandi tragedie, tutta inscritta nel “secolo breve”. Una storia ormai conclusa, quella del Partito Comunista Italiano, con cui a cento anni dalla fondazione è ora di misurarsi.
All’origine sta la divaricazione maturata nell’ambito del movimento operaio di inizio Novecento ed esplosa, non a caso, all’indomani della Prima Guerra Mondiale: la perdita di tante vite umane e la crisi economica e sociale ponevano allora i partiti socialisti europei di fronte al problema di individuare la strada per ricostruire i loro Paesi sulle macerie lasciate dal vecchio ordine andato in pezzi. Macerie su cui stava cominciando a fare leva l’eversione fascista. Di fronte a questo drammatico snodo della storia moderna divenne non più componibile il contrasto, interno ai partiti di matrice marxista, tra la linea del riformismo graduale, nell’attesa che il capitalismo avesse completato la sua “funzione storica”, e la linea della forzatura rivoluzionaria per il passaggio al socialismo, rafforzata dagli eventi dell’Ottobre sovietico.
Comunismo e socialdemocrazia separarono così le loro strade. Ambedue contenevano elementi di verità che andavano per fortuna al di là delle caduche formulazioni teoriche dell’epoca: il primo nel rivendicare, fuori di ogni attendismo, il bisogno di un intervento attivo nei processi di trasformazione sociale; la seconda nel mantenere, fuori da illusioni palingenetiche, l’ancoraggio alla democrazia come quadro di riferimento del movimento operaio.
Conosciamo le tragedie del comunismo sovietico, in gran parte dovute proprio all’idea di un socialismo costruito per forza. Ma sappiamo anche che quell’illusione ha sorretto prima lo sforzo bellico sovietico nella sconfitta del nazi-fascismo e poi la rottura degli equilibri coloniali e i processi di emancipazione di tanti Paesi dell’allora Terzo Mondo. La caduta però del Muro di Berlino e il collasso del sistema sovietico stanno lì a testimoniare in modo eloquente come le forzature non possano pretendere di diventare quotidianità senza imporre alla società prezzi inaccettabili.
Rispetto a questa storia, risulta del tutto peculiare il percorso del Partito Comunista Italiano. L’elaborazione gramsciana ha consentito al PCI di mettere a frutto l’intuizione fondante di un ruolo attivo della politica nella trasformazione della società per approdare, nel Secondo Dopoguerra, alla sintesi togliattiana della “democrazia progressiva”. Si è formata così una cultura della promozione democratica del progresso sociale che ha reso il PCI protagonista della costruzione della democrazia italiana in una interazione positiva, pur nel fuoco della lotta politica, con la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista, le forze di tradizione liberale.
Una interazione dialettica che anche sulla questione meridionale diede i suoi frutti: per esempio con le leggi di riforma agraria del 1950, che spezzando il latifondo gettarono le basi per una trasformazione dei rapporti di produzione nelle campagne e che furono il prodotto del movimento contadino di occupazione delle terre, fortemente sostenuto dal PCI. Anche se resta il suo errore nel contrastare la costituzione della Cassa per il Mezzogiorno, quasi che non potesse essa stessa fare parte della strategia – che il PCI considerava necessaria – di cambiamento della struttura sociale meridionale. In ogni caso resta la memoria di un rapporto profondo tra il Partito Comunista e le esigenze delle popolazioni del Sud, come hanno testimoniato nei giorni scorsi su queste colonne Antonio Bassolino e Umberto Ranieri, assai meglio di quanto potrei fare io.
La maturazione della democrazia italiana portò infine all’incontro tra le grandi forze popolari sotto l’ispirazione di Aldo Moro ed Enrico Berlinguer. Non sappiamo se questo incontro sarebbe riuscito a dare soluzione alla crisi economica e sociale italiana, sappiamo però che venne violentemente impedito con l’assassinio del Presidente della DC.
Da allora molti cambiamenti sono intervenuti, altri partiti si sono formati, ci sono stati governi che hanno fatto avanzare l’Italia, a cominciare dal suo aggancio europeo, e altri che l’hanno riportata indietro. Purtroppo, il “pensiero forte” di cui le tradizioni della cultura democratica italiana erano portatrici sembra lasciare sempre più il posto a un “pensiero debolissimo”.
Non hanno senso i rimpianti: la società italiana è cambiata, in positivo grazie allo sviluppo della democrazia voluto proprio dai “padri fondatori”, in negativo per il ripiegamento individualistico determinato dall’irrisolta crisi italiana. Ma ha senso ricordare al PD, cioè all’erede principale di quelle culture democratiche, che se non vuole finire in una paralizzante afasia deve saper riflettere sulla loro “lezione”, accettando il bello e il brutto della propria eredità. Per costruire il futuro non si rimuove il passato, lo si elabora.
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