Il 2021 della politica italiana: speranza e futuro cercasi
Stefano Rolando - L'Indro
Basta accontentarci di spot e annunci! Forse è stata una “trovata comunicativa” quella del Teatro alla Scala, a nome di tutta la cultura italiana dello spettacolo, di lanciare una speranza rispetto al dramma in corso, per il nuovo anno, intitolando il Sant’Ambrogio alla più grande invocazione della nostra storia culturale: il dantesco motto “a riveder le stelle”. Ma essendo il 2021 il 700° della morte di Dante Alighieri, con un vasto programma, in quello spunto c’era anche la promessa di tornare a lavorare sui nostri fondamentali. E proprio nelle crisi questo è un modo non banale di mettere fondamenta allo sforzo di scrutare il futuro. Che la politica prenda esempio. Ha riferimenti, se vuole e se può, per immaginare una moderna riorganizzazione delle speranze.
“Dare speranze al popolo”
Un carattere che le “tifoserie” del tempo passato riconoscevano ai leader (preferendo ovviamente il proprio leader all’avversario, ma ammettendo l’estensione del principio) era quello di “dare speranze al popolo”.
La cosa – che era già stata vera ai tempi dello scontro tra la DC di Alcide De Gasperi e il PCI di Palmiro Togliatti - riguardò poi principalmente il duello più accesso, quello a sinistra. Quello tra socialisti e comunisti condotto negli anni ’70 e ’80 da Bettino Craxi e Enrico Berlinguer. Tuttora la memoria di chi visse il primato del berlinguerismo si “consola” (rispetto a miopie sul cambiamento sociale mal percepito, ma anche a proposito delle ambiguità e della sparizione stessa del soggetto politico comunista) dicendo: “sì, ma dare una speranza a un popolo restava la cosa più importante”. E lo stesso succede nella memoria di chi visse il primato del craxismo, a sua volta consolandosi (rispetto ai travolgimenti giudiziari, a violenze delegittimanti e anche qui rispetto alla sparizione del soggetto politico socialista) dicendo: “oltre a vedere più chiaro il presente, offriva una più robusta speranza al popolo”.
Non pochi sono i nomi che hanno contato nella politica italiana che potrebbero vedersi riconosciuta questa qualità. Ovviamente quasi tutti i “padri della patria”, giusto per avere creato le condizioni di libertà e delle nuove regole costituzionali. I presidenti della Repubblica, soprattutto quelli dotati di una narrativa capace di non nascondere mai una fede profonda nel Paese (con punti alti nel settennato di Sandro Pertini e nel settennato di Carlo Azeglio Ciampi a cui fa eco – soprattutto in tempo di pandemia – anche la presidenza Mattarella). Vi erano poi i leader politici che non si trinceravano dietro il politichese d’occasione ma usavano cultura e visione per il loro ottimismo o per il loro pessimismo (da Aldo Moro ad Amintore Fanfani, da Luigi Einaudi a Ugo La Malfa). Vi fu chi incarnò una certa intransigenza attorno ai principi, con un’offerta dunque di sincerità (vengono in mente Giorgio Amendola, Giovanni Malagodi, Marco Pannella, Giuseppe Saragat e persino Giorgio Almirante). Dare “speranza al popolo” era naturale quando il vissuto popolare di un leader era capace di leggere sempre radici profonde (da Alcide De Gasperi a Pietro Nenni, da Pietro Ingrao a Tina Anselmi, ai leader sindacali fino alla generazione di Lama, Carniti, Benvenuto, Trentin). Dopo il ’68 contò molto il riconoscimento della forza ferma e positiva delle donne (da Nilde Jotti a Rosetta Jervolino, da Lina Merlin a Emma Bonino, da Rossana Rossanda a Rosy Bindi). E nelle scelte difficili e coraggiose contò il rapporto tenace con l’idea d’Europa (da Antonio Giolitti a Emilio Colombo e Giulio Andreotti, da Altiero Spinelli a Romano Prodi, da Giuliano Amato a Gianni De Michelis).
Nomi a parte – che qui servono a restituire memoria delle cose, non a esaurire liste – lo sguardo lungo costituito dalla razionalità della visione progettuale e dalla emozionalità di una cultura della speranza non nutrita da demagogia, ha formato – in Italia come nel mondo – il pensiero consapevole di sostegno degli elettori nel dare delega ai politici: consenso sui programmi (tra loro anche alternativi) e fiducia nei caratteri simbolici di una narrativa.
Esaurita la proposta di futuro
Scrive in questi giorni Paolo Pombeni – studioso bolognese di scienza politica – che è esaurita “la proposta di futuro”. Qualunque proposta di futuro. Lo dice a proposito dell’Italia oggi e lo riferisce a tutto il quadro della leadership in campo che conta su numeri per orientare la politica rappresentata. Non ci potrebbe essere giudizio più pesante per dare una cornice a ciò che ci aspetta il prossimo anno, in vista di un contrasto a Coronavirus bilanciato a vera visione del “dopo”. Soprattutto perché non se ne esce rispetto alle avvisaglie ormai di molti anni fa: più scade il livello della politica, più essa si riduce ad autoreferenzialità. Come dice Pombeni: “Per affrontare il futuro con qualche serenità occorrerebbe avere qualche segnale di speranza e non ce ne sono molti. Soprattutto manca il potersi riferire ad una classe politica capace di mostrare consapevolezza che c’è sul tavolo il futuro di tutti e non il suo”.
Da anni – nella rilevazione di fine anno che Démos dedica (su Repubblica) alla fiducia degli italiani in ciò che essi considerano “istituzioni” – i partiti sono all’ultimo posto. Hanno raggiunto anche livelli minimi (3/4%) e comunque mai oltre l’8 o il 9%. Da anni, insomma, come si è scritto qui qualche giorno fa, non arriva a uno su dieci il rapporto di fiducia degli italiani nei confronti della politica organizzata, rappresentata, delegata, retribuita. Un evidente vulnus democratico che ha spiegazioni, naturalmente. La prima delle quali riguarda proprio esattamente ciò che dice Pombeni: la progettazione del futuro di tutti e non la ricerca perenne di smodate, continuate, nascoste, palesi, occupazioni di tutti gli spazi di visibilità per parlare in sostanza della progettazione del “proprio futuro”.
Se qualcuno ci venisse a dire di non essere ingenui, perché senza un proprio futuro la politica non può provvedere al futuro di tutti, verrebbe da rispondere con la storia non massiccia ma nemmeno esile di generazioni di italiani che dal Risorgimento hanno salvato l’onore e le libertà collettive con i propri sacrifici anche estremi. I trecentomila resistenti (pur sempre meno dell’1% dell’allora popolazione adulta) ad esempio sono stati un caso al tempo stesso di dedizione estrema e poi, per la parte superstite, di oggettivo ricambio della classe dirigente. In cui non sono usciti solo funzionari di partito ma anche non pochissimi Enrico Mattei.
Il punto di confronto, si intende, è grave ma ancora non così drammatico. Anche se la chiave di svolgimento ha fattori simili nel tempo: la speranza è un cambiamento spiegabile con realistica raggiungibilità; il futuro è l’occhio collettivo lanciato oltre l’ultima curva, disegnato su bisogni evolutivi ora irrisolti che possono diventare diritti grazie alla democrazia. Non sommatorie, non solo economia, ma disegno che risponde a una narrativa sociale e identitaria, cioè collettiva e individuale.
L’argomento si colloca centralmente nello sguardo – afflitto ma pur sempre speranzoso – all’anno in arrivo, con particolare riguardo all’impianto di organizzazione e partecipazione attorno al nostro “Recovery Plan”, che la presidente Ursula von der Leyen ci ricorda essere un “piano” europeo costituito da altrettanti “piani” (non “fagotti”) nazionali. Appunto un “piano”, che dovrebbe portare con sé radici, motivazioni, meditate scelte, di una logica progettuale in cui economia, società, salute e diritti siano fattori collocati a matrice con le opzioni per progetti che ricevono una seria valutazione di “strategicità”. Un grande processo che risponda a ciò che va, da sempre, sotto il nome di “pensare Paese” che è, da ogni tempo, l’anticamera della proposta di futuro. Il “piano” non è un coniglio estratto dal cappello. Dovrebbe essere anche parte di un “dibattito pubblico”. Certo, un documento alla fine arriverà, rispetto all’elenco dei 52 progetti “inodori e insapori” reso noto dal Sole 24 ore il 27 dicembre). Ma difficilmente sarà ciò che si dice “pensiero pubblico”. Intanto non è un passante o un critico antigovernativo di parte ma il commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni, membro del PD partito di governo, a dire che “sul Recovery Plan a Bruxelles c’è un caso Italia”.
Siccome le previsioni economiche per il 2021 restano contraddittorie – anche quelle dell’ultima ora, con un’ipotesi di +4% di PIL ma con una stima di 1 milione di posti di lavoro in ballo – è chiaro che la cornice sulla “fiducia” ha una priorità nella transizione.
Alla ricerca dei cantieri della rigenerazione
Pombeni, nel lanciare questo appello, immagina che la posta in gioco dovrebbe rovesciare ciò che appare la linea di tendenza che ha dominato fin qui la scena di contrasto alla pandemia: “un festival di richieste di bonus e mancette”. L’equazione spicciativa che un po’ l’autoconservazione di sistema un po’ i media hanno diffuso e servito alla rassegnazione civica degli italiani è che “i numeri in parlamento sono questi e senza alternativa” e che “fa orrore pensare che in una situazione simile si debba fermare l’azione di governo”.
Così ora non solo si profila continuità di quella scena di governo, ma la si potrebbe vedere – nella capacità dei partiti di motivare il loro stesso ruolo spartitorio come cosa più efficace delle squadre tecniche proposte da Giuseppe Conte – come un festival bonus e mancette legalizzato e partitocratico. E’ difficile insomma pensare che, in quel clima proteso a vedere dove collima l’interesse di partito rispetto a progetti pescati e ripescati, nasca la filosofia della speranza che pur appartiene a radici non lontane della politica italiana.
La contraddizione è resa possibile dall’assenza di cantieri importanti che esprimano una rigenerazione della dialettica politica proprio attraverso la fuoriuscita dai ricatti. Ecco perché le elezioni che potrebbero svolgersi a tarda primavera – che riguardano tra l’altro lo snodo delle quattro capitali italiane (Torino, Milano, Roma, Napoli) – contengono forse l’unica possibilità in agenda per creare condizioni di cantiere che, ove riuscissero, contrasterebbero la resa ai ricatti, riaprendo una ricerca di cambiamento che ora pare scoraggiare i più.
In questo schema il contesto di Milano e Torino appare potenzialmente più ragionevole a creare condizioni sperimentali diverse, ma sarebbe talmente importante immaginare un’inversione di tendenza per Roma (dove ci sarebbe qualche segnale) e Napoli (dove forse il segnale potrebbe venire da una fonte per i più non immaginabile) da non mettere – per stereotipo o per principio – la museruola alle speranze.
Insomma, pur sapendo che una formula non è di per sé una garanzia di contenuti e quindi nemmeno una fidejussione a garanzia del “futuro di tutti”, laddove l’area liberal-democratica estesa a verdi e civici progressisti mettesse da parte ego-prerogative e dimostrasse possibile indurre i dem ad alleanze di governo scevre da populismo e con evidente rinnovamento generazionale, le pre-condizioni di un recupero di qualità della politica sarebbero meno velleitarie. Saldandosi – come ora non sembra avvenire – a ciò che società, impresa, scienza e ricerca stanno comunque facendo anche in Italia per declinare a “vantaggio di tutti” la parola futuro.
Se Massimo D’Alema ritiene che ci voglia “senso della storia” e “visione del mondo” per andare “oltre il PD”, questa rete LIB-LAB ha radici più profonde, ma diverse, per proporre con spessore europeo la stessa cosa.
Naturalmente, fin qui gli “appelli al futuro” si sprecano nel dibattito politico. Soprattutto quello orientato alla demagogia. Spesso evocando una sorta di melassa pacificata e indistinta che, delegando questo o quel partito, si otterrebbe. Stesso stile di indicazioni generiche vengono dalle forze di governo e dall’opposizione di destra. Un altro genere di proposta riguarda scorciatoie rappresentate da una diversa forma di delega, quando si legge su Wired che già ora il 25% degli elettori europei dimostra propensione addirittura a consegnare all’intelligenza artificiale e non ad esseri umani le decisioni politiche. Algoritmi di “deep learning”.
E’ un po’ la stessa logica che pervade ormai una parte consistente della comunicazione politica che si vive solo come in una continua e incessante competizione elettorale.
Pensare che basterebbe tenere in tensione elementi veri di tradizione e innovazione, studiando di più e non imbrogliando se stessi e l’opinione pubblica con l’idea che la politica sia fatta di “trovate”.
Per il nuovismo politico, sono per lo più trovate comunicative. Bacchette magiche, in verità inservibili per un Paese che – dopo Caporetto e l’8 settembre del ‘43 – non si meriterebbe la terza débâcle nella sua storia unitaria.
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