26 novembre 2020   Articoli

I virus e gli «astensionisti» della scuola

Viola Ardone - Corriere del Mezzogiorno

Viola Ardone - Scrittrice

I grembiulini spuntano dalle giacchette abbottonate fino al collo, il braccino teso per agganciare la mano del genitore, lo zainetto sulle spalle: si torna a scuola. In una regione in cui la didattica in presenza è stata sospesa dal 5 marzo scorso e poi mai più realmente attivata - con l’eccezione di un paio di settimane scarse a inizio ottobre - il ritorno in classe avrebbe dovuto essere una festa, una buona notizia in tempi così cupi. Non è stato così, almeno non per tutti i quartieri di Napoli. Se alla scuola Vanvitelli del Vomero, ad esempio, quasi tutti i bambini sono tornati con gioia alle loro postazioni, in altre zone i genitori hanno stabilito di non mandare i figli in classe. È il caso della Angiulli, quartiere Sanità, in cui i piccoli davanti al portone – tra infanzia e prima elementare, gli unici autorizzati finora a rientrare in presenza – erano veramente pochi.

Tutto era pronto: maestre, aule, percorsi a senso unico, liquido igienizzante, ma l’occasione è andata perduta. Tanti i banchi vuoti e i loro legittimi “occupanti” sono rimasti a casa.

Ed è un peccato: per i bambini, soprattutto, ma anche per le famiglie. Perché significa negare ulteriormente un diritto che è stato a lungo sacrificato a causa di una forza maggiore incontestabile, quella di un contagio che ha assunto proporzioni che nemmeno nella primavera scorsa avevamo immaginato. Un diritto, però, quello all’istruzione, che nel resto del Paese e in gran parte dell’Europa è stato difeso con tutti i mezzi, anche a costo di grandi sacrifici da parte degli studenti, delle famiglie e dei docenti. Gli alunni di tutta Italia - dall’infanzia alla prima media nelle zone rosse, e almeno fino alla terza nelle altre - non hanno mai smesso di recarsi a scuola, hanno affrontato periodi di quarantena, sono stati sottoposti a tamponi, hanno tenuto la mascherina per tutta la durata delle lezioni e i loro genitori li hanno accompagnati tenendoli per mano, convinti evidentemente che l’istruzione sia un valore non negoziabile. Non lo hanno fatto perché sono eroi o perché ignorano la pericolosità del virus, ma per ottemperare a una legge dello Stato dal nome “obbligo scolastico” che riguarda tutti i minori dai 6 ai 16 anni.

Da noi, invece, il protrarsi della Dad oltre ogni ragionevole limite, la riapertura circoscritta per il momento solo all’infanzia e alla prima elementare, la questione non risolta dei trasporti pubblici e i ritardi nei tamponi a docenti e alunni, hanno fatto crescere una sorta di “fronte del no”. Il messaggio che è passato, evidentemente, è che la scuola è un luogo pericoloso e che, in definitiva, i figli propri è meglio tenerseli a casa, sotto controllo, puliti e pasciuti, davanti a un telefonino o un tablet. E non è un caso che questo fronte “astensionista” sia più esteso in quartieri in cui evidentemente la disoccupazione femminile gioca un ruolo importante nella decisione di tenere i bambini a casa. Che fa, se perdono qualche giorno di scuola, visto che fuori impazza la pandemia? Che cosa importa, se trascorrono ore a fissare uno schermo?

Sono domande che nascono dalla sfiducia nelle istituzioni scolastiche e dalla paura, soprattutto dopo il bombardamento mediatico contro le cattive madri con mascherine di tendenza che ad ogni costo vogliono deportare a scuola i loro figli al plutonio. Eppure c’è quella manina tesa che spunta dal giubbino, che chiede con garbo ma con insistenza di essere tenuta, accompagnata e poi indirizzata per la sua strada. Lasciare andare: questo significa mettere “al mondo” un figlio.

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