12 gennaio 2024   Articoli

Chiara Ferragni, la bontà non è una professione

Giuseppe Coco - Riparte l'Italia

Giuseppe Coco - Professore di economia politica

Il caso Ferragni, pur nella sua singolarità, solleva una serie di interrogativi etici che vanno molto al di là della sua vicenda personale ma pochissimi si sono accorti delle sue conseguenze. La settimana scorsa su Riparte Franco Moscetti ha messo bene in luce il rapporto tra leadership ed etica nelle organizzazioni. Il problema generale però è se si possa essere buoni e fare di questo la sostanza del proprio business, oppure del proprio lavoro. Ovvero se si può legittimamente vivere del proprio essere buoni. Attenzione non stiamo parlando della compatibilità tra gli obiettivi economici di un uomo e i suoi limiti morali. 

Per ogni impresa e per ognuno di noi nella scelta della attività da svolgere si impongono delle scelte anche morali e questo ha certamente dei riflessi importanti sulla sostenibilità e reputazione di una azienda. Ma per molti queste si limitano a fissare vincoli a quello che siamo disposti a fare (che spesso coincidono coi vincoli legali), anche se ci si può porre il problema di come svolgere la propria attività in maniera da creare più valore sociale oltre che privato. Lo stesso padre dell’economia (intesa come disciplina), Adam Smith, arrivò a teorizzare, al contrario di quanto gli viene normalmente attribuito, che i limiti di prosperità cui una società può aspirare dipendono in buona parte dal sentimento morale supremo: l’empatia. L’empatia, ovvero la capacità di immedesimarsi negli altri, infatti, attraverso una maggiore fiducia a livello sociale rende più facili e universali gli scambi, minimizzando gli inutili e dannosi costi legali e burocratici di applicazione dei contratti.

Ma la domanda che ci poniamo qui è diversa: è legittimo vivere e nel caso di Chiara Ferragni prosperare del proprio ‘essere buoni’? La vicenda della Ferragni lascia molti dubbi su queste operazioni. Ma il caso Ferragni si configura in maniera chiara e sanzionabile legalmente come un caso di pubblicità ingannevole e soprattutto con le conseguenze in termini di reputazionali, visto che l’universo creato dalla Ferragni è di fatto interamente capitale intangibile legato alla sua credibilità. Altri casi sono più difficili. 

Nel bellissimo ‘After Life’ il grande comico inglese Ricky Gervais, che è per altri versi un grande sostenitore di diverse cause benefiche, ha inserito una scena molto controversa sulle sollecitazioni a donare per le cd charities, gli enti benefici. Un ragazzo con la classica pettorina da organizzazione solidale, lo sollecita a donare per i bambini e, al suo rifiuto, lo colpevolizza per la sua indifferenza ‘ai bambini’. Lui, che è appena stato colpito da un terribile lutto, gli ritorce contro un durissimo atto d’accusa contro chi sollecita donazioni per buone cause, ma in realtà sta lavorando con incentivi monetari. E poi dona un bigliettone ad una vecchietta con un tipico salvadanaio a fungo delle charities tradizionali. Nel Regno Unito le charities in passato erano di fatto animate da anziani (soprattutto donne), persone non in età lavorativa che certamente non richiedevano salari per essere buoni.

Oggi questo sarebbe inconcepibile ovviamente. Alcuni enti benefici ormai sono delle multinazionali con bilanci enormi, e che pertanto hanno bisogno di essere gestiti adeguatamente, ed è impossibile assicurarsi certi servizi senza pagare adeguatamente le persone. Va però detto che anche ignorare dei limiti a questa necessità è profondamente sbagliato. Prima di tutto la natura umana conduce in media ognuno ad esagerare la propria abilità e i propri meriti e quindi il loro valore economico. Si immagini quanto questo può essere vero per un autentico ‘buono’. Immaginiamoci se un budget discrezionale non è utile se serve a pagare il salario di uno di ‘noi buoni’. Si tratta per definizione di uno scopo ‘buono’.

Ma il problema è ancora più profondo. Esiste molta evidenza sperimentale sulla coesistenza di incentivi economici e morali e non è molto consolante. L’evidenza (si veda per esempio il bellissimo ‘Prevedibilmente Irrazionale’ di Dan Ariely) sostiene l’ipotesi che una volta sostituiti incentivi esclusivamente morali con incentivi parzialmente economici, il cervello umano si risetta abbastanza rapidamente esclusivamente su quelli economici. Questo è probabilmente il motivo per cui nelle vecchie charities trovavamo la vecchietta. Perché lei non ha incentivi economici. 

Come si risolve il problema? Inutile vagheggiare un impossibile ritorno al passato (anche se concordo con Gervais che quel mondo, che è quasi scomparso, mi piaceva molto di più). Una strada obbligata è quella della trasparenza. ‘Save the children’ pubblica una sorta di bilancio che attribuisce il 17 per cento delle entrate a iniziative per ulteriore raccolta fondi (e il 3 per cento circa a costi di funzionamento). E’ poco o troppo? Teniamo conto che si tratta di una grande organizzazione e forse dovrebbe riuscire a beneficiare di grosse economie di scala. Va certamente apprezzata la trasparenza. Penso che però le stesse organizzazioni debbano porsi dei limiti precisi attraverso i loro Statuti, oltre e al di sopra delle regole che consentono ovviamente i vantaggi fiscali nei diversi Stati. Le organizzazioni sono ovviamente consce di questa necessità e ad esempio esiste un portale di trasparenza della cooperazione (open-cooperazione) che raccoglie dati sul loro universo. Si tratta di una fonte preziosa sapendo però che, con dati auto-dichiarati, non può escludere un comportamento opportunistico da parte di qualche soggetto.

Le charities multinazionali in realtà hanno raggiunto importanti risultati in questi decenni. Al contrario di quanto sostengono esse stesse (e una pletora di scienziati sociali male informati e conformisti) la povertà assoluta è crollata su scala mondiale negli ultimi trent’anni, l’epoca buia del liberismo selvaggio secondo gli opinionisti da bar, anche per effetto della beneficenza e la cooperazione su larga scala dei paesi occidentali. Quindi esse costituiscono un valore enorme per il mondo.

Siamo quindi di fronte a un vero dilemma. Mentre per casi come quello della Ferragni (aziende) la regolazione trova alla fine la strada per risolvere il problema, con le charities la cosa è più complessa. Ogni regolazione e una vera trasparenza sarebbero costi in più che graverebbero sui contributi per le cause meritevoli e genererebbero una burocrazia ancor più mostruosa. Ma i rischi derivanti da un comportamento opportunistico, che sono chiaramente crescenti nel tempo sono altrettanto gravi. Una professionalizzazione profonda della bontà può solo generare danni, perché a valle di questo c’è il rischio di un crescente cinismo di una larga fetta della popolazione.

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Economia

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