05 gennaio 2021   Articoli

La coesione con il sud può essere la più grande riforma economica

Isaia Sales - Domani

Isaia Sales - Professore di Storia delle Mafie - Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, Napoli

“Analisi e cura delle fragilità italiane”: dovrebbe intitolarsi così il programma per la spesa dei 208 miliardi di euro messi a disposizione per l’Italia dall’Unione europea. Perché se non interveniamo sulle nostre fragilità strutturali, sarà molto arduo tornare ad essere una grande economia e una grande nazione.

Si ritiene, in genere, che siano le grandi tragedie che d’improvviso fanno emergere i limiti economici, civili, ambientali, territoriali di una nazione, limiti prima trascurati e che in parte hanno reso più fragili le persone e la collettività di fronte all’imprevedibilità degli eventi. E sono quegli stessi limiti una volta riconosciuti a poter fornire una spinta straordinaria a superarli. Le tragedie sembrano in linea di massima confermare il principio di Archimede applicato alle società umane: ogni corpo sociale in caduta riceve una spinta dal basso verso l’alto pari alla massa d’acqua spostata con il proprio peso, e nel caso delle tragedie umane o naturali la spinta a risalire può essere addirittura maggiore. Ma purtroppo in politica e in economia  la scientificità del principio non è dimostrata. A volte le tragedie capovolgono equilibri, ottundano la razionalità e la capacità di reagire, e le nazioni a causa di esse possono anche perdersi.

La seconda guerra mondiale fu nel secolo precedente l’evento che “spostò più acqua” nella storia e provocò più spinta a risalire, ma anche cambiò gli equilibri tra le potenze che avevano fino ad allora dominato il mondo. E grazie ad accorte politiche di prestiti e di investimenti a fondo perduto, l’economia statunitense si mise al centro del mondo, convinta che la ripresa economica dei paesi alleati e di quelli sconfitti (attraverso cospicui finanziamenti, grandi opere infrastrutturali e la ripresa della domanda di beni e consumi) avrebbe favorito innanzitutto l’offerta proveniente dall’economia che più era uscita rafforzata dalla seconda guerra mondiale. I prestiti degli americani agli altri popoli furono un investimento su loro stessi, sulla loro economia e sulla loro idea di dominio del mondo.

L’Italia ha oggi un’opportunità analoga a quella che le si prospettò dopo la seconda guerra mondiale. E la partita in gioco è identica: tornare ad essere protagonista dell’economia mondiale e ripetere nei prossimi anni ciò che successe in quel periodo magico quando una nazione sconfitta dalla guerra (e lacerata al suo interno per l’appoggio di massa al fascismo, per le immani distruzioni e per la sua storica debolezza economica) si proiettò in pochi decenni tra l’economie più sviluppate al mondo. Ce la facemmo allora a trasformarci in una grande potenza economica in una grande nazione, perché provammo a curare tutte le nostre fragilità, a partire da quelle causate dalla storia precedente.

Ma nel corso del tempo ciò che ci ha reso una grande nazione a partire dal dopoguerra si è consumato, deteriorato, compromesso.  Si è consumata la coesione nazionale, il sentirsi cioè parte di un medesima identità e di una comune appartenenza; ed è singolare che a erodere il sentimento nazionale sia stata la forza politica oggi più nazionalista, cioè la Lega. Si è deteriorata poi una strategia economica che aveva reso partecipi tutti i territori di una comune propensione allo sviluppo e al benessere. E’, dunque, dal passato che può venire qualche indicazione strategica per provare a risalire: fare come nell’immediato dopoguerra: ricreare una grande tensione unitaria tra i partiti (allora le divisioni ideologiche erano molto più forti ma si riuscì lo stesso a incanalarle verso obiettivi comuni di rinascita), superare la frammentazione dei poteri come prezzo pagato agli egoismi territoriali, superare lo storico divario economico tra le diverse parti dello stesso Paese. Il Sud fu tra gli anni cinquanta e la prima metà degli anni settanta del Novecento parte attiva della ricostruzione nazionale: senza gli investimenti nel Sud, senza il contributo della sua manodopera alla produzione dell’apparato industriale del Nord, l’Italia sarebbe rimasta una piccola nazione, ininfluente sullo scenario internazionale, come tutto sommato lo era stata nel corso della sua storia precedente, dal 1861 in poi. Fu in quel periodo, cioè nella ricostruzione del secondo dopoguerra, che il Sud divenne fino in fondo parte dell’Italia, quando nei fatti concorse al suo sviluppo economico e se ne avvantaggiò.

Nell’ultimo trentennio, invece, è mancata una narrazione unitaria delle nostre prospettive, è mancato un pensiero lungo sulla nazione, a partire da un approfondimento della sua storia in grado di riproporre per l’oggi un modello di intervento pubblico-privato, sostenuto da risorse internazionali, in grado di realizzare gli stessi obiettivi di allora. La domanda assillante da porsi è questa: può una nazione dirsi tale se un suo terzo è in condizioni radicalmente diverse da quelle degli atri due terzi? Non lo può per ragioni morali, civili, di equità minima, ma principalmente per ragioni economiche: in una stessa nazione e in una economia interdipendente, l’arretratezza di una parte comporta una riduzione della ricchezza nazionale e riduce l’orizzonte dello sviluppo.  E’ indubbio che la disunità economica e sociale dell’Italia resta ancora oggi il limite strutturale più evidente e meno affrontato, il limite storico più duraturo e più sottovalutato, il fattore di fragilità nazionale più macroscopico e meno condizionante della politica degli ultimi decenni. E resta il più grande bacino di opportunità della nostra economia.

Non c’è stata finora una spiegazione convincente del perché l’Italia da più di un trentennio sta conoscendo un lento declino e un appannamento delle ragioni che l’hanno resa negli anni cinquanta/settanta una delle “tigri” dell’economia europea. L’economia italiana era in declino già prima dell’attuale pandemia e già prima della crisi del 2007/2008, perché si è permessa il lusso per troppi decenni di rinunciare alle potenzialità della sua parte arretrata, di ignorare un giacimento inesplorato della ricchezza comune, di non allargare il perimetro geografico delle sue politiche di sviluppo e della sua produzione industriale.  La miopia delle classi dirigenti nazionali (in gran parte settentrionali negli ultimi decenni)  è consistito essenzialmente nell’illusione e nella presunzione di poter fare a meno di un terzo della nazione. Senza minimamente riflettere sul fatto che se quel territorio arretrato recuperasse la via della crescita e si avvicinasse alle prestazioni delle altre due parti, l’Italia tornerebbe tra le nazioni leader e si affiancherebbe alla Germania e alla Francia come pilastro dell’economia europea. E’ l’orizzonte territoriale ristretto in cui si è mossa la politica nazionale (dagli anni ottanta in poi del Novecento) il vero responsabile di ciò che siamo oggi. E’la rassegnazione a vivere in una nazione dualistica il dramma della nostra economia. Se il Pil rappresenta la ricchezza di una nazione, è ovvio che questa ricchezza non aumenta se non quando essa si propaga in tutte le sue parti. Se in un insieme una parte consistente non cresce, è l’insieme a subirne le conseguenze, anche se una singola sua parte è cresciuta. In tutti gli insiemi costituiti da parti connesse tra loro, come lo è una comune nazione, non si dà crescita dell’una senza la crescita delle altre.

Dunque, di una nuova narrazione di sé avrebbe bisogno l’Italia, e di un nuovo sguardo sul Sud. La coesione dell’Italia è la nostra più grande riforma economica, il superamento del divario la nostra strategia più lungimirante. Come nel secondo dopoguerra.

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